Una carriera artistica inter-disciplinare sotto l’ egida di un capolavoro vivente (Carmelo Bene: Capitolo III)
Nel percorso della sua multiforme sperimentazione artistica, che lo porterà a viaggiare verso un orizzonte vastissimo, dal teatro al cinema, dalla concertistica alla scrittura, dalla televisione alla radio, e da essi a tutte le loro variazioni (senza tralasciare la frequentazione della filosofia), Carmelo Bene incontra dapprima l’arte teatrale, sul finire degli anni ’50. Comincia iscrivendosi sia all’Accademia d’Arte Drammatica che all’Accademia Sharoff, ma in nessuna delle due scuole riesce a trovare una soddisfacente congruenza con la propria vocazione teatrale, così intraprende il cammino dell’autodidatta e nel 1959 debutta con il suo primo spettacolo in via del tutto autonoma (benché la regia non sia sua ma di Ruggiero, un amico anch’egli fuoriuscito dall’Accademia). Egli è “bello / ventiduenne” e animato da un fuoco che arde tutto quanto gli capiti intorno. Fino al 1968 la sua frequentazione del Teatro sarà sempre più assidua e continua, tanto da permettergli di produrre in questi dieci anni circa una trentina di spettacoli.
Il suo teatro avrà una battuta d’arresto tra il ’68 e il ’73, anni in cui si dedicherà quasi esclusivamente al cinema, firmando cinque lungometraggi, alcuni corto e medio-metraggi e partecipando ad altri progetti cinematografici di registi come Pasolini, Schifano, Indovina, Bròcani e Rocha (1975); dopodiché ritornerà a cavalcare le scene più o meno ininterrottamente fino al limite dei suoi giorni.
Ma la sua attività, che non si esaurisce tra cinema e teatro, lo vede, intorno alla metà degli anni ’60, impugnare anche la penna, viaggiando in una letteratura come itinerario nel meraviglioso, dal romanzo ai saggi, dai pamphlets alla poesia; tuttavia non è semplice trovare una forma utile a qualificare tali opere-residui letterari, dal momento che tutto il corpus in questione è attraversato da un irriducibile proposito di fondo: la discrittura del pensiero e della voce. Ne deriva così una letteratura sletterata, dove lo scritto è scritto del morto orale e immediatezza del pensiero; il legame con l’orale è assoluto nel caso della poesia e ne è testimone e sommo esempio il poema ‘l mal de’ fiori scritto e pubblicato nel colmo della maturità (2000); nel caso dei saggi, dei libelli e articoli vari, non che manchi il rapporto con l’orale, ma emerge con più evidenza la ricerca di un’immediatezza del pensiero, lo si può ben osservare già in Proposte per il teatro, pubblicato tra i suoi primi scritti nel 1964. Anche il romanzo Nostra Signora dei Turchi (1966) conferma la discrittura della voce, infatti quando verrà tradotto nell’omonima opera cinematografica del 1968, il trasporto dalla parola d’inchiostro alla parola di voce avverrà immediato, così come pure l’immediatezza del pensiero sarà trasferita nell’immediatezza di un’unica e continua variazione di immagini, che determina ed è determinata simultaneamente dalle riprese, dalla sceneggiatura, dal montaggio, e che rivela un’incredibile e sorprendente musicalità delle immagini. In tutto ciò si può ravvisare la comunione con un’opera cardine del Novecento: l’Ulisse di Joyce; testo che viene tradotto in italiano da Giulio De Angelis nel 1960 e che Bene legge proprio in quel periodo, considerandolo da subito non solo come il punto di non ritorno del romanzo e come un film vero e proprio ma, soprattutto, come l’unico capolavoro artistico in grado di cambiargli la vita – poiché interrompe la rappresentazione e diviene simbiosi fra arte e vita.
Sempre nei primi anni di attività, Bene sperimenta un altro mezzo di creazione artistica, quello discografiafico. Sono del 1962 le incisioni pubblicate dalla RCA Edizioni Letterarie, con musiche di Giuseppe Lenti e voce-solista di C.B. su poesie di Majakovskij e Garcìa Lorca; poco prima aveva registrato anche alcuni passi dell’Ulisse joycesiano, ma non li aveva fatti pubblicare perché non soddisfatto. Per il momento resta una pagina isolata che verrà ampliata solo dal ’76 in poi, ma quel che interessa riscontrare è che si tratta di un primo e precoce approccio con la strumentazione fonica che tanta parte avrà nelle sue future ricerche. Accanto alla produzione discografica c’è quella radiofonica, che prenderà le mosse nel 1973 con le Interviste Impossibili prodotte dalla Rai e che nell’arco di un decennio lo vedrà impegnato in una fitta serie di progetti, consegnando all’ammasso degli archivi Rai folte mèssi di materiale sonoro.
Sulla cordata delle produzioni Rai si inserisce anche, a partire dal 1974, la realizzazione di opere-esperimenti per la televisione che ammonteranno, a fine carriera, ad una quindicina di titoli. L’intera opera radio e audio-televisiva di Carmelo Bene è stata prodotta, talvolta realizzata, e sempre trasmessa dall’azienda statale, fruttando così all’autore la possibilità di praticare una lunga e continua ricerca e offrendo agli spettatori una ben nutrita serie di tasselli che compongono una mappa di coordinate fondamentali per intendere l’arte beniana. Ma il rapporto di Bene con la televisione non si esaurisce di certo qui, infatti sono molto numerose le sue comparse in programmi TV di varia natura. Egli appare già disinvolto quando, nella metà degli anni ’60, la sua immagine e la sua voce vengono ripresi e confezionati per dei servizi in stile reportage, è ancora l’epoca del bianco e nero, lui ha i capelli riccioluti e un’aria magari un po’ spavalda ma di certo sicura e motivata, ha dichiarato di avere un obiettivo: distruggere il teatro, ed è intento a farlo. I volti e le voci beniane si diffonderanno in misura crescente sullo schermo dalla fine degli anni ’70 in poi; li ritroveremo ospitati nei programmi di opinionismo sportivo accanto ad un Aldo Biscardi perfettamente accoppiato come il Profeta Jokannan con Erode nella Salomè; da Alba Parietti a Piero Chiambretti passando per le famose puntate di Mixer Cultura e del Maurizio Costanzo Show, la loro presenza è in grado di seminare sempre una qualche zizzania nel campo della comunicazione, rimandando costantemente ad un magnetismo di fondo che sembra prendere le distanze da tutto quanto accade sulla superficie degli schermi televisivi; come se risuonasse una nota dalla frequenza bassissima e però impercettibile fino al momento in cui non si smetta di concentrare l’ascolto sulle note più acute; un basso continuo su cui risuona l’intera armonia.
Infine, una qualche parentesi Bene la aprirà anche con la pittura ma resterà sempre chiusa in una forma del tutto privata.
Ora è interessante fare due considerazioni.
La prima riguarda l’inter-disciplinarità delle arti affrontate da Bene. Esse sono tutte riconducibili tra loro grazie all’indisciplina di un rigoroso metodo artistico con cui opera la sottrazione delle forme per mezzo di un sistema additivo; e occorre precisare che tale metodo è sviluppato e applicato innanzitutto nel suo teatro, nel suo non-luogo prediletto. Ed è nel teatro che egli vive come nel suo habitat naturale; prove ne siano gli oltre cinquanta progetti realizzati che costituiscono la parte maggiore della sua produzione, e il suo riconoscersi in qualità di attore, termine che non sconfesserà mai neanche quando adotterà una nomenclatura più puntigliosa e più estesa facendo ricorso alle nozioni di Non-Attore e di artifex. Non a caso insisterà sempre su un punto, che la parola attore deve il suo etimo ad “agere” e nemmeno per sogno alla parola “agire”, è un atto squisitamente retorico, vocale, che egli si ostinerà ripetutamente a dimostrare in scena.
In secondo luogo, avviene che una tale eterogeneità artistica sia eterogenea solo in apparenza. Più propriamente la si potrebbe definire de-genere, ma il degenere a ben vedere non è definibile in nessun modo, non è categorizzabile, poiché esso è destabilizzazione del genere. Eppure da qualcosa è tenuto insieme, indissolubilmente fuso. Nel suo capolavoro-testamento televisivo, Quattro Momenti su tutto il Nulla, Bene offre una sintesi estrema sull’Arte (con la maiuscola).