Immobilismo, contestazione e rinnovamento negli anni ’60 (Carmelo Bene: Capitolo II)
Si è soliti ormai definire gli anni ’60 come gli anni della contestazione, ma occorre precisare che sono in molti, tra storici e filosofi, ad attribuire al fatidico sessantotto un valore di fine più che di inizio; o meglio lo si considera come apice di una tendenza storica a contestare aspramente alcuni punti cruciali dello Stato italiano. Di lì a seguire, nonostante l’autunno caldo del ’69, il costituirsi di una seppur frammentata sinistra radicale, la crisi economica dei primi anni ’70, il compromesso storico e gli anni di piombo, ciò nonostante siamo già nel “riflusso”, ovvero nel declino di quelle forze intenzionate a sovvertire, se non proprio le istituzioni democratico-repubblicane, almeno il caratteristico procedere sulla via delle riforme che con lenta e calcolata cautela contraddistingue l’assestamento della Repubblica all’interno dello Stato.
Con il Paese che sta cambiando e che beneficia di una crescente prosperità economica, aumentano le pressioni per una politica sociale maggiormente adeguata ai nuovi bisogni del popolo italiano, il quale non manca di far sentire la sua voce per mezzo sia dei suoi rappresentanti sia di una più accesa e diffusa azione diretta dei cittadini. Anche la Chiesa si sensibilizza alle nuove esigenze sociali, ne sono testimoni le encicliche promulgate dal nuovo Papa Giovanni XXIII e l’inaugurazione del Concilio ecumenico Vaticano II; tali scelte creano uno spazio in cui può avere inizio un dialogo tra marxisti e cattolici, incentivato ulteriormente dalla politica internazionale che, scongiurata la crisi missilistica di Cuba, intraprende una fase di distensione e confronto fra le due superpotenze mondiali.
Lungo tutto il decennio, il conflitto tra quelle correnti sorrette da istanze rivoluzionarie e quelle sorrette da un’impostazione conservatrice diviene sempre più dialettico; ed è con grande abilità politica che le seconde riescono a devitalizzare le prime. Dopo un fallito tentativo della DC di accentuare il carattere autoritario governando con l’appoggio del MSI e dei Monarchici, che si risolve nei quattro mesi di governo Tambroni e nell’acuirsi degli scontri con le forze legate alla Resistenza e alla Sinistra più intransigente (si vedano la vicenda di Genova del giugno ’60 e i susseguenti episodi di repressione da parte della polizia nel resto d’Italia), la strategia che viene messa in opera è quella di scindere la compattezza del blocco di opposizione tramite l’assimilazione delle parti più moderate di esso; avviene così che nel ’62 può aprirsi la strada, pur tra molte reticenze, al primo governo di centro-sinistra, che per il momento riceve un appoggio solo esterno da parte dei socialisti (non esenti da un ulteriore indebolimento interno del partito che da lì a due anni subirà una nuova scissione). Le speranze di quanti credono sia possibile aprire “la via al socialismo” attraverso la cooperazione con la DC verranno progressivamente deteriorandosi ad opera dell’immobilismo praticato dai successivi governi Moro, mentre sarà sempre più diffusa l’acquiescenza praticata dai socialisti nei confronti dei metodi democristiani e la loro graduale assimilazione. Questo nuovo assetto politico concede ovviamente qualcosa alle correnti riformiste, rappresentate non solo dai socialisti o dai social-democratici ma anche da alcuni sottogruppi democristiani (il più importante dei quali è sicuramente “Iniziativa Democratica” alla cui guida si trova Amintore Fanfani), e fra le non molte riforme concesse vale la pane di ricordare quella della scuola, grazie alla quale l’Italia ridurrà drasticamente l’analfabetismo e innalzerà il livello medio della cultura; tuttavia l’università viene lasciata così com’è e sarà appunto questa la causa principale dell’imminente protesta studentesca.
Per quel che riguarda il teatro, gli anni ’60 sono particolarmente turbolenti; da un lato si assiste all’incancrenimento dei rapporti tra Stato e teatro, dall’altro vengono fuori grandi prove registiche e molte novità nel modo di intendere il teatro.
Il braccio di ferro “tra lo spettacolo d’arte registicamente inteso, e la politica culturale del sistema di potere subentrato al Fascismo” si fa particolarmente duro. Nonostante l’abolizione della censura di Stato sul teatro di prosa (1962), le polemiche e il boicottaggio nei confronti di alcune opere allestite dai teatri stabili (di Torino, Genova e Milano) procedono vigorose e:
dietro l’apparenza occasionale degli articoli diffamatorii e delle denunzie alle procure della repubblica, si profila […] una strategia intesa a bloccare, attraverso tattiche di logoramento, il potenziale salto di qualità del teatro a gestione pubblica. Ed è una formula in grado di agire […] sulle contraddizioni interne delle strutture organizzative degli stabili.
I teatri pubblici dunque sono pienamente impelagati nel pantano della discordia politica; essi hanno bisogno di ingenti finanziamenti statali, visto che spesso, anche facendo il tutto esaurito di pubblico, gli incassi provenienti dallo sbigliettamento non sono sufficienti a coprire le spese fatte per l’allestimento degli spettacoli, quindi i bilanci economici risultano essere cronicamente in perdita; ed è questa una delle principali imputazioni che gli viene mossa contro da chi gestisce l’erogazione dei denari pubblici; ma, a ben guardare, dietro le polemiche risulta chiara una motivazione ancor più calcolata: lo sperpero di denaro pubblico, in Italia, dilaga in molti settori e tuttavia viene non solo tollerato ma anche sostenuto in nome di un tornaconto politico; dunque lo si potrebbe accettare pure nel settore del teatro pubblico se non fosse che l’ideologia dei direttori artistici e i messaggi contenuti nelle loro opere sono in palese avversione al potere centrale.
E’ in questo contesto che prendono corpo le massime esperienze registiche di Strehler che, tra Vita di Galileo, la trilogia shakespeariana e la ripresa de I giganti della montagna, raggiunge i vertici formali della sua poiesis scenica, ingigantendo i segni di un mondo dello Spettacolo in lotta sia contro il Gioco dei Potenti che contro il tiepido interesse del pubblico contemporaneo.
Mentre sono in corso queste donchisciottesche battaglie per il controllo e la definizione del Teatro di Stato, emergono delle nuove tendenze che animano in modo dirompente la vita teatrale dello scenario italiano. Gli anni sessanta infatti sono anni in cui l’urgenza di indagare la natura stessa dell’arte teatrale si manifesta attraverso la tenacia di validissimi ricercatori, personaggi che spesso vengono inscritti nella circonferenza dell’artaudiana crudeltà.
Ed ecco che sulla penisola approdano gli esuli Julian Beck e Judith Malina alla guida del Living Theater, trascinando dietro di sé lo scompiglio di una contestazione sociale applicata con un metodo che va ben al di là delle tecniche di scena, per agire in modo diretto sulla pelle quotidianamente sociale degli attori e proponendosi come ricerca di una soluzione al disagio esistenziale dei performers; tra scandali e spettacoli sospesi, il rapporto tra arte e vita si declina nei termini di una comunità (che per ora non ha nessuna intenzione specificamente finalizzata all’impegno politico).
Nel sottobosco della cultura nazionale cresce l’interesse per le importanti ricerche condotte da Peter Brook e da Jerzy Grotowski di cui si parla nelle riviste di settore; uno studio sul lavoro del regista polacco viene presentato in Italia da Eugenio Barba, vero e proprio “pioniere” del teatro antropologico, e tra i vari punti analizzati spicca il rapporto tra crisi del teatro e crisi della cultura contemporanea:
uno dei suoi elementi essenziali, la scomparsa del sacro e della funzione rituale del teatro, è legato al processo evidente e probabilmente irreversibile del decadimento della religione. Ciò di cui parliamo è una proposta di creare per il teatro un sacro che sia laico.
Su un altro versante si muove Dario Fo, il cui credo artistico si connota per il suo saldo legame con la politica; anche in lui trova un posto-chiave la parola comunità.
Ma facciamo ora un piccolo passo indietro sull’asse cronologico e cominciamo ad abbracciare in modo più stretto il nostro discorso su Carmelo Bene.
Il 1959 è un anno importante per il teatro italiano, poiché iniziano a muovere i primi passi alcuni tra i principali artefici di quella che verrà poi definita la neoavanguardia; oltre allo stesso Bene debuttano, ciascuno per suo conto, Claudio Remondi e Carlo Quartucci (e negli anni immediatamente a venire, spesso ruotando intorno ai suddetti, compaiono Rino Sudano, Leo De Berardinis, Mario Ricci, ecc…). Soltanto che se Quartucci e Remondi fanno il loro ingresso in sordina, Bene invece è da subito investito da una maggiore risonanza; ciò avviene per una serie di motivi che mostrano tutto sommato come egli sappia, consciamente o inconsciamente, far parlare facilmente di sé, grazie soprattutto ad un temperamento focoso.
Prima ancora di andare in scena già si parla dello spettacolo, del Caligola di Albert Camus; l’autore francese è stato insignito del premio Nobel appena due anni prima, è sulla cresta dell’onda, i suoi testi teatrali vengono ampiamente messi in scena e talvolta anche in modo contrario al suo gusto: difatti, dopo aver visionato una messinscena proprio del Caligola allestita dal Piccolo Teatro di Milano, Camus decide di ritirarne i diritti in tutto il mondo. C.B. e Alberto Ruggiero (anche lui proveniente dall’Accademia di Roma) stanno lavorando già da un po’ su questo testo e decidono di incontrare l’autore in persona per chiedergli il diritto di rappresentarlo; impresa audace, altamente improbabile e che tuttavia gli riesce: il premio Nobel per la Letteratura concede la sua autorizzazione a due emeriti sconosciuti, e lo fa in cambio di un posto in platea. Camus contatta Nicola Chiaromonte per dargli istruzioni in proposito; la notizia, che si diffonde anche sui quotidiani, suscita scalpore e, naturalmente, attesa per l’evento che ne verrà fuori. Il luogo deputato sarà l’illustre Teatro delle Arti, già sede dello sperimentalismo bragagliano; inoltre, bisogna ricordare che Bene e Ruggiero sono alle prese con un forte dissenso nei confronti dell’ambiente teatrale accademico, con cui si trovano in perenne e animata polemica, una polemica che in quegli anni è molto sentita. A tutto ciò si aggiungano anche dei manifesti stranissimi che i due affiggono in giro per Roma, stralci di frasi sospese e senza spiegazione alcuna; ed ecco che viene fuori il perché, alla prima dello spettacolo, siano presenti moltissimi spettatori di riguardo, da Anton Giulio Bragaglia a Chiaromonte, da Sandro De Feo alla Morino (che tra gli insegnanti dell’Accademia è una delle poche a scommettere su Bene e che, guarda caso, era stata per trent’anni primattrice in coppia con Ruggero Ruggeri); la stampa, la critica, gli artisti, i maestri, i curiosi, gli accademici e gli antiaccademici sono già tutti lì. Lo spettacolo viene contestato e fischiato da alcuni ma anche fortemente applaudito da altri, c’è chi lo trova molto confusionario e tuttavia resta colpito dall’audacia e dalla non banalità del lavoro, nonché dal talento del giovanissimo attore (è il caso di Bragaglia); agli occhi dei più lungimiranti, o se non altro di coloro che ci hanno lasciato delle tracce scritte sulla performance (in particolare De Feo, Chiaromonte, Galloni), emergono subito alcuni punti salienti: la parentela con la tradizione del grande attore, il gusto della provocazione, il rapporto stringente con il nihilismo, l’affratellamento con il mondo collodiano dei balocchi di Lucignolo e con la viziosità grottesca del pagliaccio, la sovrabbondanza di idee e di mezzi tecnici e insieme la tendenza allo spreco di essi, l’attitudine a girare a vuoto su se stesso e l’irriducibilità a nessuna delle formule teatrali prestabilite né tanto meno accademiche.
Negli anni immediatamente a seguire Bene sarà alle prese con il massacro dei classici, motivato dall’esigenza di sperimentare un linguaggio teatrale che non sia sottomesso né al potere del linguaggio letterario né alla politica del teatro. Pur fra molte diversità di intenzioni e di metodi, i percorsi di Bene e di altri “eretici” (sia del palcoscenico che della critica teatrale) si incontrano all’altezza del 1967 nel Convegno di Ivrea “per un Nuovo Teatro”, in cui si tenta di ricucire “in unità le sparsissime membra della sperimentazione nostrale” puntando all’obiettivo comune di smarcarsi dalla coercizione delle posizioni dominanti sulle strutture del settore. E’ il rifiuto di ogni ingerenza atta ad imporre una “qualsiasi validità all’attuale artefatta distinzione tra teatri primari e teatri minori di ricerca” , nella ferma e radicale convinzione che “Il teatro deve poter arrivare alla contestazione assoluta e totale” ; tutto ciò sfocerà nella diffusione di due principali tipologie organizzative: il teatro-laboratorio e il teatro-collettivo. Ma il punto è che una tale pretesa di riformare lo statuto teatrale avrebbe potuto realizzarsi soltanto passando attraverso una soluzione politica (e non tecnica) del problema. Difatti il controllo politico sull’arte teatrale resterà immune alle contestazioni sessantottine, e si adeguerà ai nuovi impulsi del settore rendendo semplicemente più duttile la strategia dei contributi ministeriali; l’attività di prosa sarà distinta in:
a) teatri a gestione pubblica; b) complessi teatrali a gestione privata; c) cooperative; d) teatri professionali di sperimentazione ,
e così facendo diverrà impossibile produrre uno spettacolo al di fuori delle maglie burocratiche. Si determina un sistema per cui ogni complesso teatrale, ciascuno secondo la propria categoria, è obbligato a concorrere alla gara per l’attribuzione dei fondi pubblici, senza i quali risulta impraticabile la sopravvivenza economica visto che non si possono eludere le imposte erariali sull’incasso lordo delle rappresentazioni, altrimenti non si potrebbe neppure andare in scena. Va precisato inoltre che la quota maggiore delle sovvenzioni è rivolta, (come nell’industria) alle grosse imprese mentre alle cooperative e, soprattutto, ai gruppi di sperimentazione non restano che gli avanzi. Per di più, osserviamo che tale sistema offre la possibilità di censurare ab origine quei gruppi ritenuti scomodi, privandoli semplicemente dei denari pubblici.
Concludendo questo capitolo-introduzione si vuole porre l’accento su una dinamica in particolare a cui si è costantemente alluso nelle precedenti pagine: il potere politico e statale italiano si è sempre occupato molto del teatro, così da poterne promuovere le componenti in maggior sintonia con esso e contenerne ed arginarne le manifestazioni ritenute scomode. E se al tempo del regime e della dittatura poteva avvalersi di metodi più bruschi e diretti per farlo, con il volgere verso la repubblica e la democrazia, invece, si è trovato a dover escogitare dei mezzi più sottili e “diplomatici”, che proprio in quanto tali appaiono subdoli.