La Russia vista dal silenzio di una stanza: Boris Pasternak (Carmelo Bene: epilogo)
Pasternàk nasce a Mosca nel 1890, sua madre è un’eccellente pianista, suo padre è un pittore (Leonìd Osipovic) che insegna alla Scuola moscovita; la casa dei genitori è frequentata da artisti e intellettuali (come Lev Tolstoj), così che la sua infanzia trascorre placida in un ambiente molto stimolante e creativo, in cui si incrociano differenti linguaggi artistici. La prima passione del giovane Borìs è per la musica, cui sussegue l’interesse per la letteratura; si ritrova dunque a compiere studi sulla composizione e sulla filologia, per poi apprendere, a Marburgo, la filosofia dei neokantiani, temprata sugli schemi e sui sillogismi. La formazione giovanile sedimenta in lui le tracce indelebili di un atteggiamento che fonde in unità fantasia e raziocinio, sentimento e pensiero. Il suo esordio nella letteratura è del 1914 e, nel fermento di movimenti che dilagano nella Russia di quegli anni, la sua posizione iniziale si colloca nel gruppo di “Centrifuga”, ovvero nell’ala destra del futurismo. Pur aderendo alle ricerche verbali dei cubofuturisti, questi poeti non ruppero i legami con la tradizione.
A differenza d’un Majakovskij, che si proclamava “tredicesimo apostolo”, o d’un Esènin, che si definiva “famoso poeta russo”, Pasternàk si mostrò sempre ritroso e modesto, alieno da ogni esibizione teatrale. Segregandosi nella sua cameretta, “scatola con una rossa melarancia”, rimase estraneo agli spettacoli dei cubofuturisti e alla poesia sgargiante dei cartelloni. […] Pasternàk non urla come Majakovskij, non declama strofe irruenti e tumultuose, ma cesella una poesia da camera, che si nutre di sottili memorie dell’infanzia e ammorza i rumori della realtà in un sommesso fruscìo, in una sorta di colloquio familiare.
Eppure l’adesione al gruppo di “Centrifuga” è breve, visto che Pasternàk si ritrova ad essere attratto proprio nell’orbita di quel Majakovskij così distante da lui per temperamento e intemperanza polemica. Dirà infatti nel suo libro di memorie intitolato Il salvacondotto (1931):
Quando mi si proponeva di narrare qualcosa di me stesso, cominciavo a parlare di Majakovskij. E non era un errore. Io lo adoravo. Io impersonavo in lui il mio orizzonte spirituale.
Nel “laboratorio” del cubofuturismo, egli apprende a trattare la parola come fosse una sostanza chimica che si può scomporre, poiché acquista una concretezza tangibile, come nelle scomposizioni volumetriche della pittura cubista. E Pasternàk, che è figlio di un pittore, rivela tutto il suo interesse per un trattamento della poesia che non escluda i processi di strutturazione dell’immagine. Forse è da ricercare proprio in questo tipo di studio il motivo per cui la sua poesia risulti spesso oscura alla comprensione. Egli intesse le parole, così come i pensieri, per mezzo di un metodo che, scomponendo appunto le immagini, crea una struttura in cui i semi linguistici si rifunzionalizzano, spiazzando la visione unidimensionale della realtà poetica. Se non si applica uno studio di funzione alle parole e ai pensieri, la sua poesia resta inintelligibile, poiché non se ne può cogliere la polidimensionalità. Dunque, se da un lato Pasternàk è vicino all’esperienza futurista per i fitti incastri semantici e per le vertiginose trame verbali e metaforiche, dall’altro se ne distacca per il ripudio di qualsiasi motivo declamatorio o politico. Le sue atmosfere risultano quasi immemori della storia in cui il poeta si muove. Ciò nonostante, quando arriva la rivoluzione egli la accetta positivamente, come la parte migliore dell’intellighenzia dell’epoca, ma senza l’enfasi messianica di Blok o l’entusiasmo di Majakovskij. Mano a mano che l’entusiasmo e il fuoco delle giornate d’Ottobre si affievoliscono, lasciando spazio al freddo rigore della macchina statale, in Pasternàk si dilata la già scarsa propensione a immettersi nel fiume della storia; prende corpo così il tema assoluto e più dolente della sua vita, che ritroveremo tanto nella sua poesia quanto nella sua narrativa e che lo porterà a vedergli assegnato il premio Nobel: “la libertà della poesia perennemente insidiata dal potere politico e sempre in lotta coi dogmi dei tiranni”.
La vita di Pasternàk si svolge così lungo un percorso che sta tra due Russie, la Russia pre-rivoluzionaria, ricca di vita, affanni, speranze e la non-Russia post-rivoluzionaria desolata e sconfitta. Egli comincia a sognare un’altra Russia oltre la sovietica, a vagheggiare una Russia dello spirito, una Russia dell’anima, europea, universale. E’ allora che si ritira a vivere a Peredelkino, fuori Mosca. Così (si disse) perse la sua Russia pur vivendo in Russia: in effetti egli aveva sì accettato i dogmi della rivoluzione, ma ne rifiutava i corollari.
Nella solitudine di Peredelkino, Pasternàk mette mano (quando non si sa) al suo romanzo Il dottor Zivago. Una volta terminato, offre ai suoi lettori alcune poesie attribuendole al protagonista del romanzo, il dottor Zivago, appunto. Il dattiloscritto, rifiutato dall’Unione degli Scrittori, non può venir pubblicato in Russia, perché giudicato un “libello” antisovietico. Niente da fare: Pasternàk è un dissidente, il suo libro in Russia non può uscire. Ed è qui che entra in gioco Giangiacomo Feltrinelli: entrato in possesso del manoscritto, lo pubblica in esclusiva mondiale il 23 novembre 1957 – scontrandosi così con il Partito Comunista Italiano, vicino alle posizioni dell’Unione Sovietica. Dall’Italia, il romanzo di Pasternàk si diffonde in tutto l’Occidente fino a divenire il simbolo della realtà sovietica: una realtà raccontata con tanta maestria da colpire l’Accademia svedese, che decide – su indicazione di Camus – di premiarlo con il più alto riconoscimento cui uno scrittore possa ambire. Pochi giorni prima dell’assegnazione, però, sorge un problema: qualcuno fa notare che per ricevere il Nobel le opere di un autore devono essere regolarmene pubblicate in lingua madre. Ma Il Dottor Zivago in Russia non ha mai visto la luce: stando al regolamento, dunque, il premio non può essere consegnato.
Quando tutto sembra perduto, a scomodarsi è la Cia in persona: il premio Nobel a un dissidente sovietico, in piena guerra fredda, è per gli Stati Uniti una missione cruciale. Venuti a conoscenza della presenza di un dattiloscritto del Dottor Zivago in russo a bordo di un aereo – secondo la ricostruzione del ricercatore russo Ivan Tolstoj – i servizi segreti dirottano il volo a Malta: l’opera viene fotografata dagli agenti pagina per pagina, per poi essere pubblicata su carta russa secondo le norme tipografiche sovietiche. Missione compiuta: la Cia ha beffato il Kgb, il Nobel può essere assegnato.
L’annuncio ufficiale dell’assegnazione del premio a Pasternàk – “Per il suo notevole successo tanto nella poesia contemporanea quanto nel campo della miglior narrativa Russa” – è datato 23 ottobre 1958. Due giorni dopo, Pasternàk invia all’Accademia un raggiante telegramma: “Immensamente riconoscente, toccato, orgoglioso, incredulo, imbarazzato”. Parole molto diverse da quelle contenute nel messaggio che segue di lì a pochi giorni: “In considerazione del significato attribuito a questo premio dalla società in cui sono nato, devo rifiutare questo immeritato premio che mi è stato conferito. Vi prego di non accogliere il mio volontario rifiuto con dispiacere”. È una piccola vittoria per l’Unione Sovietica: dopo pressanti minacce da parte del Kgb – in caso di ritiro del premio, Pasternàk non sarebbe più stato ammesso in URSS e le sue proprietà sarebbero state confiscate – lo scrittore si trova costretto a lasciare il Nobel in Svezia.
Ma il senso del riconoscimento non cambia: l’Accademia annuncia che “questo rifiuto, ovviamente, non altera in alcun modo la validità del premio”. Con o senza premiazione alla presenza dell’autore, uno tra i più celebri dissidenti sovietici resta il premio Nobel per la Letteratura del 1958.
La vita di Pasternàk giunge alla fine due anni dopo: sono due anni di sofferenza e povertà, sotto la costante minaccia dei servizi segreti sovietici.
Questa tribolata vicenda conferma quella che, a nostro avviso, è l’unica legge della poesia e che si ritrova compiutamente incarnata in Pasternàk: una profonda unità dell’estetica con l’etica.