Carmelo Bene: Majakovskij (Capitolo I)
E’ il 1959 quando Carmelo Bene debutta nel mondo dello spettacolo ed è subito un “esordio shock” , un evento che metterà in moto tutta una sequenza di episodi il cui protagonista susciterà un gran vociare e molto interesse intorno a lui, tendendo a far spaccare in due la risposta dei suoi spettatori. L’etichetta della provocazione gli viene giustapposta come emblema inaugurale di una carriera spesso considerata solo come un “lungo aneddoto scabroso” .
Perché questo? E’ evidente che Carmelo Bene colpisce, ma cosa e come?
Per poter rispondere sarà opportuno osservare dapprima cosa accade in Italia e nel mondo in quel torno di tempo che investe gli anni ’50, facendo anche una ricognizione sul modo in cui vengono a determinarsi le condizioni di vita del teatro e dello spettacolo in generale e senza tralasciare l’eredità politica e culturale dell’Italia monarchica con le sue conseguenze. In seguito sarà doveroso dipingere un quadro di quel fermento e pullulare di idee e prassi che riguarda gli anni ’60, ovvero di quegli anni in cui Carmelo Bene affronta dal pulpito del teatro, a più riprese, il fenomeno e la poetica di Vladìmir Majakovskij.
Politica, società, economia e teatro in Italia, dalla Repubblica agli anni ’50
Innanzitutto, dopo la seconda guerra mondiale e il progressivo declino dell’egemonia europea nelle relazioni internazionali, è in corso la contrapposizione netta tra due blocchi territoriali trainati rispettivamente da USA e URSS, cui fa seguito uno scontro su molti fronti: politico, economico, ideologico, sociale, militare e culturale; l’Italia, la cui partecipazione al modello americano non verrà mai messa seriamente in discussione, è comunque pervasa da vere e proprie idiosincrasie tra chi propende per l’uno e chi per l’altro schieramento. E’ fondamentale tenere a mente questo conflitto perché si ripercuoterà anche sulla vita del teatro italiano e sullo spettacolo in generale (il cui legame con la politica non cesserà mai di essere ben saldo).
Un secondo aspetto importante da cogliere riguarda quel fenomeno che va sotto il nome di miracolo economico. In Italia è in corso uno stravolgimento radicale che investe molteplici livelli.
Gli anni del miracolo furono il periodo-chiave di uno straordinario processo di trasformazione che toccò ogni aspetto della vita quotidiana: la cultura, la famiglia, i divertimenti, i consumi, perfino il linguaggio e le abitudini sessuali.
Da paese agricolo che era, l’Italia si trasforma gradualmente in un paese industrializzato i cui progressi economici saranno enormi, basti pensare che il reddito pro-capite crescerà più rapidamente che in ogni altro paese europeo (salvo la Germania Occidentale) e che nel ’70 sarà più che raddoppiato; ciò nonostante la produzione, orientata verso le esportazioni sul mercato americano ed europeo (di quell’Europa filoamericana) comporterà “un’enfasi sui beni di consumo privati, spesso su quelli di lusso, senza un corrispettivo sviluppo dei consumi pubblici” : è la cosiddetta distorsione dei consumi, che costituirà uno dei moventi di molte agitazioni negli anni avvenire.
Molto intensi sono i flussi migratori, che però riguardano soprattutto spostamenti all’interno della penisola: è la fuga dalle campagne verso le città; tanti sono i giovani, per lo più meridionali, che aspirano a un nuovo modus vivendi (anche C.B. è uno di quei giovani che da un paesino del profondo Sud, Campi Salentina, figlio di una di quelle famiglie che si potrebbero ben dire tradizionali, si trasferisce nella Capitale allentando così la presa dei genitori su di lui), per molti di loro si risolverà purtroppo in una nuova e peggiore alienazione, ma comunque resta il fatto che gli italiani si mobilitano verso un modello sociale di vita urbanizzata. Marcati sono i mutamenti nella struttura di classe, che per certi versi si fa più complessa e anche, se vogliamo, più confusa. Inoltre:
Se la caratteristica dominante di questo periodo fu la modernizzazione culturale secondo i miti e i modelli del capitalismo consumistico, è importante ricordare che più che di un mutamento puro e semplice si trattò di un processo di sovrapposizione, cioè del radicarsi di una nuova consapevolezza su abitudini e pratiche preesistenti.
Verrebbe da dire, come Gramsci, che:
il vecchio muore e il nuovo non può nascere; e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.
Dilaga la diffusione di nuovi beni di consumo durevoli, tra cui spicca, ai fini del nostro discorso, la televisione, monopolio di Stato controllato dalla Democrazia Cristiana e dalla Chiesa; i programmi hanno inizio nel 1954 e riguardano l’educazione religiosa, i notiziari (intrisi di pregiudizi fortemente anticomunisti), la musica leggera, i quiz e lo sport; peculiare della programmazione televisiva italiana sarà il raggruppamento dei messaggi pubblicitari in un unico programma: Carosello, che inizia nel 1957 e che tre anni più tardi sarà il più seguito, specialmente dai bambini. Se per la DC la televisione è uno strumento utile a raccogliere consensi elettorali, per la Chiesa si rivela essere un’arma a doppio taglio, dal momento che diffonde in larga misura i valori consumistici del miracolo economico, i quali non sono di certo conformi a quelli proclamati da Pio XII, che infatti è piuttosto contrario (così come i comunisti più intransigenti) al suo utilizzo. Soltanto che, dirà più tardi Pier Paolo Pasolini:
il Vaticano non ha capito che cosa doveva e che cosa non doveva censurare. Doveva censurare per esempio Carosello, perché è in Carosello, onnipresente, che esplode in tutto il suo nitore, la sua assolutezza, la sua perentorietà, il nuovo tipo di vita che gli italiani devono vivere. E non mi si dirà che si tratta di un tipo di vita in cui la religione conti qualcosa. D’altra parte le trasmissioni di carattere specificamente religioso della televisione sono di un tale tedio, di tale spirito di repressività che il Vaticano avrebbe fatto bene a censurarle tutte.
Ecco un fattore sul quale credo sia davvero fondamentale porre l’attenzione: il declino della religiosità. E’ in questi anni che decadono sia la partecipazione dei fedeli alle cerimonie religiose (soprattutto nelle città) sia il numero delle vocazioni sacerdotali. Infatti già nel 1957 don Lorenzo Milani lamentava la fine imminente della religione popolare:
Per un prete, quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Essere liberi, avere in mano Sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto d’essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Aver la Chiesa vuota. Vedersela vuotare ogni giorno di più. Saper che presto sarà finita per la fede dei poveri. Non ti vien fatto perfino di domandarti se la persecuzione potrà essere peggio di tutto questo?
Direttamente proporzionale a questo declino è il diffondersi di un’inquietudine religiosa vissuta come tensione verso una ricerca dello spirituale, che si ritroverà spesso in percorsi artistici apparentemente lontanissimi e inconciliabili tra loro.
Adesso ci preme sottolineare un’altra questione-chiave, ovvero la gestione politica della cultura teatrale la cui impostazione, risalente all’epoca fascista, resterà sostanzialmente invariata nella transizione dalla Monarchia alla Repubblica.
Il rapporto di continuità tra Stato fascista e Stato repubblicano è un dato ormai storicamente acquisito: pressoché immutate sono molte delle strutture statali, come le burocrazie parallele (è il caso dell’I.R.I.) di capitale importanza per lo snodo e l’esercizio del potere; oppure gli enti parastatali di previdenza sociale (I.N.P.S., I.N.A.M., I.N.A.I.L.). Per quel che riguarda la gestione del teatro, in piena epoca fascista si era visto uno Stato indaffarato nella coordinazione di “una amministrazione centralizzata del settore, [di un] controllo politico sulla produzione, [di una] diffusione degli spettacoli di prosa tra un pubblico diverso da quello abituato a frequentare palchi e platee” , e soprattutto:
il nuovo consorzio monopolistico di stato [l’UNAT, istituito nel 1934], il perfezionarsi del sistema delle sovvenzioni pubbliche, la creazione di uffici e di autorità competenti ad amministrare il settore costituiscono altrettanti indici significativi dei nuovi statuti che il Fascismo attribuisce al teatro italiano negli Anni Trenta: un sistema concepito per costruire attorno a tutte le forme di spettacolo una rete finanziaria di sostegno pagata dai contribuenti e sottoposta al controllo della burocrazia governativa (in un regime di gestione che, non escludendo l’interesse privato, lo condiziona comunque a complici forme di compromesso col potere politico).
Non c’è continuità solo nelle strutture ma anche nel personale che lavora e opera all’interno di esse (è il caso delle forze dell’ordine, della magistratura, ecc…); la cosiddetta epurazione , tanto invocata dagli ambienti della Resistenza, non solo non viene concessa ma addirittura viene applicata alla rovescia, basta pensare allo zelo con cui Scelba in poco tempo epura le forze dell’ordine da coloro che sono entrati in servizio nel tempo e nel nome della Resistenza; ma c’è di più: Togliatti, alla guida del Ministero di Grazia e Giustizia, concede l’amnistia ad un gran numero di “ex”-fascisti attivi proprio nelle maglie delle strutture statali.
Del resto, il persistere – sotto altri colori – di quella pretesa al controllo politico sul teatro che il Fascismo aveva istituzionalizzato rientra in un quadro di trasformazioni sena troppe fratture che riguarda, anzitutto, i nuclei strutturali di gestione dei settori produttivi della cultura italiana.
E infatti:
i posti chiave nella stampa, nell’editoria libraria e periodica, nella radio e nell’industria cinematografica furono di nuovo occupati dalle persone che li avevano tenuti sotto il fascismo. Ciò accadde in parte a causa di un’inefficace epurazione degli ex-fascisti, […] e in parte perché le industrie richiedevano uno staff qualificato ed esperto piuttosto che nuovi arrivati inesperti.
Per mettere ben in evidenza il controllo della politica sulla cultura osserviamo ancora un altro fenomeno:
Dal 1947 al 1953 il vero responsabile dello spettacolo fu Giulio Andreotti, che governò il settore tentando costantemente di far coincidere i criteri industriali e ideologici, usando una combinazione di forze di mercato, censura e disturbo ideologico. Presso il nuovo Ministero del Turismo e dello Spettacolo [creato nel 1953] fu riattivata la Direzione generale del teatro ancora sotto la guida di De Pirro, fu ripreso senza alcuna innovazione il sistema delle sovvenzioni alle compagnie – con un evidente sostegno ad un numero ristretto di “primarie” – e ristabilita una Commissione ministeriale nella quale erano rappresentate tutte le categorie professionali. Nello stesso tempo fu confermato il sostegno pubblico a tutti gli enti […] creati dal fascismo: dall’Ente italiano scambi teatrali – creato nel 1937 per favorire scambi con l’estero – all’Ente teatro italiano (nato nel 1941 per la costruzione e la gestione di teatri pubblici), dall’Istituto nazionale del dramma antico, fondato nel 1925, all’Accademia d’arte drammatica [1935]. Se escludiamo la creazione dei teatri stabili pubblici affidati alla guida dei maggiori registi italiani […] il paesaggio dei primi decenni del dopoguerra fu dominato da linee di evidente continuità con il sistema costruito dal fascismo.
Per quel che concerne le forze di opposizione a questo sistema:
Conta soprattutto che neppure l’impegno politico della migliore intellettualità resistenziale sia riuscito a individuare e a contrastare a tempo debito il vero ostacolo contro cui sarebbero state destinate a infrangersi le speranze di rinnovamento globale del teatro italiano: il persistere e il perfezionarsi di un sistema di gestione dello spettacolo – già prefiguratosi col tramonto del liberalismo, poi tradotto in formule metodicamente operative nel periodo fascista – fondamentalmente favorevole a soddisfare non tanto esigenze artistiche e sociali, quanto interessi privati disposti a ogni sorta di commercio con i potenti di turno.
Riassumendo e sintetizzando tutte queste citazioni ne viene fuori un quadro simile:
negli anni ’50 il sistema secondo il quale la politica struttura e indirizza la cultura teatrale è già sperimentato e collaudato; esso si serve dei soldi dei contribuenti e di alcuni capitali privati per promuovere se stesso, per radicarsi come legge necessaria; nei ruoli-chiave di tale sistema ci sono degli uomini che utilizzano la loro posizione per consolidare uno stato di controllo politico, il quale si risolve in interessi di partito non esenti da conflittualità tra le differenti correnti interne ed esterne ad esso. E allora ecco che ne risulta un panorama dominato da scontri tra fazioni sì rivali ma comunque integrate all’interno di un unico sistema. Un cane che si morde la coda. L’inverarsi del mutare qualcosa affinché nulla venga cambiato.
Dunque illustriamo ora quale sia quel qualcosa che viene mutato nell’Italia repubblicana rispetto all’Italia fascista, visto che “il secondo dopoguerra rappresenta indubbiamente, pur in mezzo a elementi di continuità con il sistema precedente, un tempo importante di rottura e di modificazione”.
Già nel 1943, l’8 agosto, pochi giorni dopo il voto di sfiducia del Gran Consiglio e l’arresto di Mussolini, le istanze rivoluzionarie della giovane cultura scenica romana, sia cattolica che marxista, trovano voce comune nel manifesto Per un teatro del popolo in cui si affermano dei princìpi che, per quanto resteranno utopici, sono tuttavia altamente indicativi di un orientamento culturale che sarà ben rappresentato negli anni avvenire:
Il teatro è stato mantenuto deliberatamente fuori della storia e della moralità del nostro popolo […]. Affermiamo, oggi, la necessità di un teatro che, giovandosi di un assoluto rigore stilistico, assolva in pieno il suo compito morale e sociale; e rappresenti nelle forme più diverse e più libere l’attualità dei sentimenti del nostro popolo.
Da questa motivazione vengono fuori alcuni auspìci che riguardano il rapporto tra le istituzioni politiche e la cultura teatrale; si chiede: che il teatro venga considerato come
“un luogo in cui il popolo conviene per un’opera di elevazione spirituale”, e a tal fine che se ne promuova lo sviluppo così come avviene per la scuola; che i prezzi siano popolari e che i posti siano uniformi; che nello sceglierne i direttori “si adotti il criterio della capacità artistica e non della forza economica”.
Su posizioni analoghe si attestano anche taluni movimenti che prendono corpo nella cultura lombarda; è il caso di Strehler che avversa decisamente la possibilità di coesistenza tra un vecchio teatro fatto di compagnie di giro e di “troppa teatralità” e un nuovo teatro in cui sia netta la dominante registica. Comincia così a configurarsi:
la supremazia (o, comunque, la non eludibilità) di una inedita funzione creativa, che si proclama responsabile suprema degli esiti estetici e delle valenze socio-culturali della rappresentazione.
Sono molte le figure di rilievo che si interessano alla possibilità di cambiare il modo di fare teatro e il cui legame con il teatro di regia è fondante; ci sono i “figli” dell’Accademia Nazionale d’Arte drammatica: Orazio Costa, Vito Pandolfi, i più giovani Vittorio Gassman e Luigi Squarzina; c’è una nuova leva di intellettuali e di operatori: Ivo Chiesa (fondatore della rivista “Sipario”), Paolo Grassi, Nuccio Messina, Gianfranco De Bosio; c’è anche Luchino Visconti, “il quale comunque ha lasciato un segno preciso in quello che è il polo storico del teatro italiano, il mondo delle compagnie private (dette di giro in contrapposizione ai teatri stabili)”.
Proponendosi come un faro che ha il compito di rischiarare la rotta agli smarriti cittadini italiani (investiti ormai di un nuovo ruolo sociale, non più sudditi ma protagonisti della sovranità popolare), sorge il Piccolo Teatro di Milano (1947) che, tra l’altro, si rivolge in modo diretto anche “agli uomini che, investiti di potere, si sentono responsabili della vita morale d’altri uomini, perché pongano a profitto di questa istituzione la loro autorità politica o la loro potenza economica”.
Per Strehler e Grassi è prioritario determinare una concezione e una pratica del teatro inteso come servizio pubblico e per ottenere ciò è decisivo stabilire una cooperazione con le istituzioni. Pur tra mille difficoltà riusciranno a dar forma a un modello di teatro stabile che riscuoterà successo per la sua praticabilità, così che negli anni ’50 si diffonderà in altre città; tuttavia c’è un particolare di non poco conto:
Il sistema degli Stabili si fonda su una coppia di consoli, un direttore organizzativo accanto a un direttore artistico […]. Ma se il secondo è in genere portatore di una cultura progressista, quasi sempre marxista, il primo, quando non è democristiano, si sforza comunque di tenere buoni rapporti con le amministrazioni di parte prevalentemente democristiana. Il teatro riflette quella che è stata una scelta strategica del Paese-Italia: che ha mantenuto in salde mani democristiane il potere politico ed economico, ma ha lasciato volentieri nelle mani della sinistra – per una sorta di inconscia e geniale sorta di compromesso storico ante litteram – la gestione della vita culturale, dalle grandi case editrici alle università al variopinto mondo degli artisti. Il processo è andato avanti dunque con lentezza. Gli enti locali si sono fatti carico, sì, del nuovo teatro italiano, ma con prudenza e con misurata parsimonia.
Non mancano, insomma, dei gruppi che si dìano da fare per tentare di costruire almeno le basi di nuovi teatri, se non sperimentali, quantomeno dotati di una visione dell’arte differente dalla dottrina ufficiale di Stato. E in questo clima si lanciano all’irrequieta ricerca di un repertorio ritenuto più consono ai tempi correnti e alle specifiche esigenze artistico-sociali da molti rivendicate; così fanno la loro comparsa assieme a “nuovi” autori (Hemingway, Cocteau, Anouilh, Sartre, Achard, Tennessee Williams, O’Neill, Miller, Gorkij) anche “nuovi” temi che suscitano dibattiti e facilmente anche scandali (l’omosessualità, l’incesto, la risentita polemica sociale). A mano a mano, verrà profilandosi un repertorio in precedenza censurato dal regime o comunque precluso dal conservatorismo della cultura idealista; è facile immaginare che più d’uno percepisse come una ventata d’aria fresca questa nuova possibilità di aprire finalmente anche le scene italiane, da un claustrofobico repertorio di regime, ad uno dal respiro internazionale. In sostanza, ci si adopera per introdurre tra i dibattiti del popolo italiano delle istanze già diffuse in altri paesi (e che per ovvii motivi il regime e la temperie italiana avevano in precedenza negato) tenute insieme da un sottile filo “rosso” appartenente alla matassa della Resistenza.
Ecco dunque cosa avviene in Italia: degli uomini dotati di una forte e sicura personalità reclamano che il teatro venga incluso in quel processo di democratizzazione che si sta diffondendo in tutto il Bel Paese, e lo fanno poiché in effetti hanno sviluppato una cultura in cui il senso e la natura del teatro sarebbero, in nuce, popolari, collettivi e quindi sociali; ergo, si pongono la questione di stabilire quale sia la funzionalità del teatro e la individuano in una modalità operativa che è la seguente: gli operatori teatrali hanno il compito di rappresentare, di fronte a un consesso di uomini identificati in una stessa comunità, dei conflitti che rientrano nell’ordine di grandezza della società stessa che quei conflitti genera; e non si tratta solo di rappresentare conflitti ma di ricomporli in una integrità di forme, offrendo così al pubblico delle chiavi di lettura da utilizzare tanto in teatro quanto nella vita quotidiana. Ma sia beninteso che le chiavi fornite riguardano sempre e comunque dei modi di leggere la storia che viene presentata sulla scena intendendola come rappresentazione della storia vera e propria, della storia tout court, proposta come conflitto tra istanze contrapposte; e nello specifico, come contrasto tra forze sociali, tra classi. Quanto avviene sulla scena si risolve in una lettura materialistica e, ancor più, marxista degli eventi umani.
Non è un caso che l’autore forse più amato da molti registi attivi tra il ’50 e il ’60 sia proprio Bertold Brecht, le cui opere diverranno una vera e propria moda sui palcoscenici italiani.