Bene! Quattro diversi modi di morire in versi. Blok – Majakovskij – Esènin – Pasternak (Cap.IX)
Sotto questo titolo sono accomunate sia la versione televisiva del 1977 sia la versione teatrale andata in tournée nel 1980 nei teatri lirici (da cui è tratta la registrazione per una produzione discografica dello stesso anno). E’ già chiaro dal titolo che dal precedente Spettacolo-concerto Majakovskij a questo nuovo spettacolo Bene si apre a un più vasto orizzonte della poesia russa. Per questo sarà necessario mettere a fuoco le figure di questi poeti e la storia culturale della Russia del loro tempo; e, poiché le traduzioni in lingua italiana delle poesie utilizzate da Bene sono, principalmente, di Ripellino, sarà soprattutto ai suoi studi che faremo riferimento.
Dal realismo alla rivoluzione d’ottobre, passando per il simbolismo e Aleksàndr Aleksàndrovic Blok.
Blok nasce a Pietroburgo nel 1880. Suo padre è un musicista di pianoforte e insegna Diritto pubblico all’Università di Varsavia, sua madre è la figlia del botanico Bekètov, Rettore dell’Università di Pietroburgo. I genitori si separano ben presto ed egli cresce sotto la tutela della famiglia materna in un ambiente culturalmente assai stimolante, circondato da nonna, zie e madre, che traducono letteratura e poesie da diverse lingue straniere, compongono versi e amano la musica. Così fin dalla giovane età si desta in lui l’amore per la letteratura. Insieme alla sua famiglia frequenta la tenuta estiva di Mendelèev dove, con la figlia del grande chimico, Ljubòv’ Dmìtrievna, organizza spettacoli teatrali e specialmente recite di Shakespeare. Nei suoi primi vent’anni respira in un clima di tradizionale conservatorismo sotto l’egida del nonno-rettore, ignorando le moderne correnti artistiche.
Il 1901 è un anno decisivo per la sua formazione, conosce infatti le liriche e le dottrine del poeta e filosofo Solov’ev. “Personaggio bislacco, sempre oscillante tra il misticismo e il burlesco, Solov’ev asseriva, risalendo ai concetti platonici, che la realtà della terra è soltanto un insieme di fenomeni effimeri, uno scialbo ed inerte riflesso, appena un barlume del mondo delle idee perenni. Egli teneva per certo che l’Anima dell’Universo, la Sposa Eterna, si sarebbe incarnata per riscattare l’umanità dal peccato. E ravvicinando l’arte alla liturgia, considerava il poeta un teurgo, un veggente. […] la poesia di Solov’ev divenne suggello di fede per la generazione di Blok”. Solov’ev è il precursore del simbolismo russo, corrente che muove i suoi primi passi nell’ultimo decennio dell’Ottocento, stretta tra gli ultimi sussulti di un vecchio e moribondo ordine tanto sociale quanto che culturale. Il simbolismo è vicino al decadentismo nella sua predilezione a dipingere lo squallore della vita russa, passiva, tediata, pessimista, in cui l’amore diviene solipsismo e l’unica apologia possibile è quella della morte. Tendendo “verso la sfera delle idee eterne, verso una realtà superiore, di cui la nostra realtà visibile è solo il riflesso, il simulacro deforme”, i simbolisti interpretano la poesia “come notizia di altri mondi, come culto esoterico, come registro di formule magiche”.
Merito indiscusso di tale corrente artistica è la capacità di reazione ai dettami stantii di un realismo sciatto e claustrofobico, tanto insistente e visibile nel teatro. Va ricordato che nello stesso torno di tempo ha inizio l’esperienza artistica di Stanislavkij e Nemiròvic-Dàncenko, nel pieno della fascinazione per la militarizzazione scenica dei Meininger e alle prese con il tenue lirismo di Cechov. Prima di tentare altre strade, i padri del Teatro d’Arte incappano anch’essi nel vicolo cieco di uno smaccato realismo, maniacalmente intento a portare sulle scene ogni sorta di orpelli da trovarobato, abiti, monili e utensili, panche e sedie, grilli che cantano, orologi e cuculi, fogliame sparso, mancano solo i quarti di bue da Théatre Libre di Antoine: si crede che la verità sulla scena possa apparire solo se veri sono gli oggetti e i rumori della finzione scenica; e c’è di più, dagli attori si pretende che parlino e si muovano così come nella vita quotidiana, andando a recuperare dentro di sé, se necessario, vaghe memorie di emozioni dimenticate o perdute da ricontestualizzare nel presente.
Con l’apparire dei primi versi simbolisti, si pongono le condizioni per una liberazione dai peggiori sintomi dello pseudo-reale e per un ritorno alla potenza creativa dei sogni e della fantasia, alla ricerca di nuovi mezzi espressivi, rivalutando la tecnica e il “mestiere” del poeta, accrescendo la sonorità del verso così da immergere le immagini e l’ossatura logica nella liquidità di un flusso musicale, fino a smarrirne linee e contorni. Bisogna distinguere due tendenze del simbolismo russo: la prima è di ordine puramente estetico e intende guadagnarsi un ruolo nel contesto culturale europeo; la seconda (in cui troviamo anche Blok) vorrebbe subordinare l’estetica alla teologia, conferendo al poeta una funzione demiurgica, sacerdotale. In questa seconda tendenza si insinua un maggior grado di estenuazione nei confronti della cultura borghese, si sottende un gran bisogno di fede e si manifesta un così rigido misticismo da essere sempre sull’orlo dell’ironia metafisica.
Quasi tutti gli –ismi sono, pressoché, frutto di una storicizzazione critica che si deposita a posteriori su dei fenomeni specifici, con uno sguardo d’insieme che intende accomunarne linee e tendenze principali così da semplificarne la lettura. Accomodandoci su tale riduzione, torniamo su Blok. Egli entra nelle grazie di una piccola cerchia che si dà nome “Argonauti” e predica in un salotto l’insegnamento e l’esegetica della “dottrina” solov’eviana. In preda a una sorta di sbandata mistica, gli Argonauti presentono l’imminenza di un rivolgimento catastrofico del mondo e attendono, insieme con esso, l’incarnazione dell’Eterno Femminino, la redentrice dei peccati. Ora, accade che Ljubòv’ Mendelèeva venga identificata con la Sposa Eterna e intorno a Blok (che la sposerà nel 1903) si manifesti una specie di culto. In un incrocio di esaltazioni messianiche e di improvvisi rovesciamenti ironici e autoparodistici, si determina un clima che Blok percepisce sempre più come tedioso e a tratti inquietante. Ma Pietroburgo pullula di salotti, di cui i più illustri sono quelli di Zinaida Gippus e Vjàceslav Ivanov, e Blok prende a frequentarli; spaesato “come un dio in un lupanare” – a detta dello stesso Ivanov – vi declama i suoi versi. “Lento, si accostava ad un tavolo con le candele, guardava all’intorno con occhi di pietra e lui stesso impetrava, fino a quando il silenzio non avesse raggiunto l’assenza di suoni. E attaccava, tenendo la strofa con tormentosa maestria e rallentando appena appena alle rime. Egli ammaliava con la propria dizione, e quando finiva una lirica, senza mutare la voce, di scatto, pareva sempre che quella delizia fosse finita troppo presto e ancora si dovesse ascoltare”.
Il 1905 segna una svolta radicale nella sua poesia così come nella sua vita. Inizia a prendere corpo in lui una marcata distanza non solo dagli Argonauti, ma dagli stessi circoli salottieri dei letterati, intrisi di malcelate invidie e di pettegolezzi; per di più, il fallito tentativo di rivolta contro il regime zarista, sembra richiamarlo a una nuova prospettiva sulle vicende umane, che si sofferma sulle “Bolle di terra” popolate da demonietti palustri e strane creature che affollano la sua immaginosa demonologia.
Dai cieli eterei della Bellissima Dama e dagli sfuocati riflessi di una realtà ultraterrena, si apre la strada uno scoppiettante brusio di mascherine che invade le sue scene schiamazzando e spruzzando succo di mirtillo, ombre dai contorni nitidi e definiti, altalenanti tra le “clorotiche immagini di Laforgue”, incise nelle acqueforti dell’ironia, e l’indelebile lacrima dipinta sul volto di Pierrot, simbolo di un’insanabile angoscia. “Il mistero traligna in arlecchinata, in un delirante trastullo di manichini e di goffe fantasmine” : è Balagancik, il Baraccone dei saltimbanchi.
Questa commedia-calembour è ormai una pietra miliare di quello straordinario moto di rinnovamento che ha attraversato la cultura russa nella sua stagione più prolifica e feconda del Novecento. Lo è non solo per la sua portata letteraria, ma essenzialmente perché segna un raccordo eccezionale tra poesia e teatro. La sua prima messinscena – 30 dicembre 1906 – è opera di un sodalizio artistico tra nomi eccellenti dell’ambiente teatrale; il teatro in cui viene presentato è quello di Vera Feodoròvna Kommissarzévskaja, la pallida attrice dagli occhi fissi, profondi e magnetici come quelli di un uccello notturno, capaci di orientarsi nel buio di una notte decadente, e dalla voce armoniosa sì come sono i colori nella lontananza di un’aurora boreale, capace di cantare il tremolio delle note simboliste, e capace anche di eruttare passioni vulcaniche; nella sua corte lavorano il poeta-musicista Kuzmìn, lo scenografo Sapunòv e l’inflessibilità di uno dei più grandi maestri del teatro di tutti i tempi: Vsèvolod Emìlevic Mejerchòl’d. Oltre a curare la regia, il maestro indossa la maschera di pelle umana del poeta-protagonista Pierrot. Come Treplev ne Il Gabbiano, la Kommissarzévskaja e Mejerchòl’d sono alla ricerca di nuove forme da dare al teatro – se non alla vita stessa – ed è per questa ragione che entrambi hanno abbandonato da qualche anno (1902) le loro posizioni ormai consolidate all’interno di teatri di sicura fama, per intraprendere dei nuovi percorsi di sperimentazione. Mejerchòl’d, la cui formazione artistica è stata temprata nella formidabile fucina del Teatro d’Arte, si ritrova a gestire, nel 1905, il primo e oculato tentativo stanislavskijano di dar vita a un Teatro-Studio; l’esperienza ha vita breve, ma lascia un segno di chiara e rigenerante impronta simbolista. Il giovane regista svela “il suo misticismo, la sua visione lirica, fortemente spirituale del mestiere dell’attore e del teatro”; è folgorato da una visione ascetica che intende il teatro come un eremo e il fare l’attore come una dedizione totale all’arte.
Nel 1904 la Kommissarzévskaja – dopo essersi congedata dal teatro statale Aleksandrìnskij – fonda il suo Teatro Drammatico a Pietroburgo, trasformandosi in un’abile impresaria e fine intenditrice di testi letterari, e ansiosa di sperimentare le nuove forme recitative del teatro simbolista. Due anni più tardi decide di chiamare l’esuberante attore-regista e, in breve, il suo teatro diventa un avamposto della sperimentazione simbolista.
E’ da tutte queste premesse che sorge lo spettacolo Balagàncik. Le reazioni del pubblico rassomigliano a quelle tipiche del primo teatro e del cinema di Carmelo Bene: una commistione di vivi applausi e veementi dissensi, a dimostrazione delle novità apportate nel linguaggio artistico utilizzato. Ci sono da rilevare alcune tendenze di fondo in tale linguaggio. Innanzitutto, la parentela con la Commedia dell’Arte italiana, ben evidente se si considera, in generale, il tripudio di mascherine che inondano la scena, e in particolare, maschere come Arlecchino e Colombina ma, anche, lo stesso Pierrot che altro non è se non la derivazione francese di un carattere così tradizionalmente italiano esportato ai tempi del Re Sole. Per Mejerchòl’d è l’inizio di un lungo studio sulla Commedia dell’Arte, per ora, più indirizzato, registicamente parlando, a un’indagine visiva che si basi sia sul cromatismo pittorico dell’attore in rapporto alla scenografia, sia sulla stilizzazione gestuale. D’altro canto, il rapporto che instaura con il simbolismo, su di sé come attore, non è di origine visiva bensì profondamente musicale: “Mejerchòl’d – scrisse l’attrice Verigina – agitava entrambe le maniche e in quel movimento da pagliaccio si esprimeva la gioia della speranza che balenava all’improvviso […] Pierrot era come se desse ascolto ad una canzone che gli veniva dal cuore. Il suo sguardo era strano – egli guardava intensamente dentro di sé”, e aggiunge la Gavrilovich: “la musica interiore che ricercò Mejerchòl’d nel suo teatro simbolista, la riscoperta armonia del proprio sé col mondo si ricollegava ad una concezione positiva, elaborata in quegli anni a Pietroburgo da Elena Guro, poetessa e pittrice. Per la Guro l’universo è un pulsante corpo organico in cui materia e spirito, cielo e terra non sono entità separate, ma dialoganti tra di loro” .
Sulla scia di quest’ultima osservazione, si ravvisa quella che forse è la maggiore distanza a intercorrere tra l’autore dello spettacolo e l’autore del testo, la medesima distanza che c’è tra due differenti declinazioni del simbolismo: il coté positivo e il coté negativo. Per Blok, Balagàncik è il frutto di un estremo disincanto-evasione, sia dagli aspetti più ascetici, sia da quelli più positivi del simbolismo russo. Tra i critici che contestano lo spettacolo c’è Belyj, specchio del misticismo blokiano, fedele Argonauta e futuro antropòsofo steineriano; i due si conoscono molto bene, ma la loro amicizia è sempre più conflittuale. C’è una scena molto importante nella fase iniziale del testo e dello spettacolo, reso splendidamente nella teatralizzazione mejerchol’diana, è l’episodio dei mistici, autentica parodia dell’esperienza autobiografica vissuta dal poeta frequentando il circolo degli Argonauti. Ci sono degli uomini ombrosi colti nell’attesa di un’apparizione epifanica, essi credono che presto si rivelerà dinanzi ai loro occhi l’incarnazione della Sposa Eterna; ma quando spunta finalmente la Bellissima Dama, ella indossa le frivole vesti di Colombina, subito presa d’assalto dall’erotomania di Arlecchino e dal sospirare di Pierrot; i mistici, dal canto loro, anziché restare folgorati da una visione estatica, scorgono nel suo sembiante quello della Morte e fuggono intimoriti. La scena è grottesca e ironica, una sarcastica e spietata parodia della “dottrina” ispirata a Solov’ev. Nel suo complesso, Balagàncik segna anche la disillusione nella consolazione di una “normale” vita quotidiana. Sono emblematici in tal senso due episodi dell’opera. Uno è nell’immagine di Arlecchino che sale su una scala posta sul fondo della scena e si butta da una finestra; e però la finestra non è reale ma dipinta, quindi sfonda soltanto una parete di carta precipitando dall’altra parte; restano così un buco sulla scenografia e il trambusto che ne deriva dal suo ruzzolone. L’altro episodio è il finale. Scompaiono alla rinfusa tutte le mascherine e la stessa scenografia viene tirata via dall’alto con un meccanismo simultaneo e precipitoso. Sulla scena, vuota, resta il solo Pierrot con il suo lamento, inconsolabile.
Da questo momento in avanti nella vita di Blok comincia l’erranza tra gli ambienti dei teatranti dove si accendono e si spengono effimeri amori per le attrici, tra la fumosità alcolica dei locali notturni, tra le vie buie dei bassifondi ricolme di sofferenza. Nella sua poesia appare un “mondo terribile” in cui “porta all’estremo la negazione, la metafisica del non essere. Come impregnando il suo genio di bile e di ripugnanza, egli effigia un universo-obitorio, in cui ogni porta di bettola è come la porta d’una tomba e gli stessi riverberi dei fanali sulle strade hanno contorsioni diaboliche. La vita è farnetico, insulsa sequela di abbagli grotteschi che sferzano gli occhi come ali di pipistrello. E non è meraviglia che la realtà più concreta sia in quei versi la Morte”. Eppure è proprio in questo periodo che in lui “si fa più sottile l’intuito dei cataclismi, il fiuto della storia. Ogni argomento si dilata in una sintesi dell’epoca, e gli spunti autobiografici si intrecciano col moto dell’universo, con le circostanze della vita sociale. Ogni esperienza, ogni fatto recente è un pretesto per una sorta di sinfonia cosmica”. In quel procedere di porta in porta, come nei Canti Orfici di Dino Campana, lasciandovi il cuore suo, sembra infervorarsi solo a contatto con gli zingari, cosicché la sua precipua forma poetica diventa la romanza zigana, in cui racchiude delle fiammate di ubriaco entusiasmo e la lacerazione del suo spirito. “Sono attimi passeggeri di estasi e di abbandono, cui seguono plumbei risvegli, rimorsi e trafitture di noia, che rendono ancor più intollerabile la consuetudine dell’esistenza. E tuttavia l’anima, sempre eccitata da smisurati desideri, ansiosa di esperienze infinite, trova una dolcezza fatale in quegli istanti di oblìo, agogna la perdizione come riscatto dall’uggia d’una vita deserta, insipida, inutile” .
In questa temperie di umore nero giunge il soprassalto della Rivoluzione e delle giornate d’Ottobre, che Blok accoglie piuttosto gioiosamente; pur provenendo da una famiglia dalle origini gentilizie, egli ha in abominio i “sazi”, i borghesi, i soddisfatti. Pur sapendo che il sovvertimento avrebbe spazzato via la sua classe, trascinando dietro di sé una scia di sangue e di ruderi, egli accetta tali accadimenti nella speranza di vedere spazzata via con esse la putredine della borghesia, la meschineria utilitaristica e l’ipocrisia dei compromessi di un filisteismo dilagante. Aderendo in questi anni al gruppo degli “Sciti”, così come Belyj ed Esènin, interpreta questo sommovimento come catarsi dell’umanità destinata a rinnovare le radici dell’essere.
Nel gennaio del 1918, profondamente animato da questo suo sentire, in soli tre giorni, scrive tutto d’un fiato Dvenadcat’ , “I dodici”, gettando notevole scompiglio nel mondo dei letterati e non solo. Molti tra coloro che l’avevano in gloria restano di stucco, perplessi, infastiditi da un inconsueto linguaggio in cui affiorano monconi di discorsi da trivio, persino slogans da cartelloni politici, e in cui trapela la sua accettazione nei confronti della rivoluzione. Da un altro versante, l’ortodossia marxista, memore della sua passata adesione al misticismo, lo osserva con sospetto. Inutile dire quale possa essere stata la reazione negli ambienti dell’aristocrazia e della borghesia, piombate “inaspettatamente” nel caos più totale, in una ridda di bellicosi straccioni che fino a pochi decenni prima erano ancora ufficialmente i loro schiavi. Nel poemetto voltolano, inghiottiti nel turbinio di un vento gelido, che affatica il respiro in singhiozzi fatti di suoni e immagini, tutti i temi cari a Blok: dall’insopprimibile melanconia, al tedio morboso; dall’improvviso guizzare di mille lingue infuocate, alle incisioni clorotiche e sarcastiche di un mondo in rovina, grottesco, popolato da sagomine e caricature di una perduta dignità umana, perduta già da moltissimo tempo e che la rivoluzione permette semplicemente di evidenziare, di rendere manifesto; dal triviale triangolo impastato nell’eros e nel thanatos, all’eterea concretezza dell’invisibile. Marciano i dodici inarrestabili come il flusso ininterrotto delle parole, affrontando tutto ciò che incontrano, cambiando passo metro e ritmo, alt!, epanalessi, avanti marsc’, metro classico, tetrapodìa giambica, fianco sinist’ e ritmo popolare; e alla fine pare proprio di assistere ad una summa della poesia blokiana, in cui le immagini sono inghiottite nel vortice di una musicalità che può condurre a nient’altro che al vuoto.
In merito al finale dell’opera, su cui tanto si è discusso, c’è una prima fondamentale osservazione da fare. Nelle liriche blokiane del primo periodo:
la fine ripete il principio e si ha una circolarità di struttura, dentro la quale si muove a onde l’energia emotiva, che cresce e, al massimo della tensione, ricade sul punto iniziale, talché il tutto si chiude con il principio e quasi continua oltre la fine, indefinitamente. Per il Blok del periodo più tardo, invece, è caratteristico il compimento al punto superiore, verso il quale l’intera poesia sembra tendere. La poesia si tiene sull’ultima strofa, se non addirittura sull’ultimo verso, anzi sull’ultima parola, che diventa il luogo della massima tensione.
Così avviene pure, e soprattutto, in Dvenadcat’, nella cui parola di chiusura, “Gesù”,
non soltanto v’è il punto più alto della poesia: v’è tutto il suo piano emotivo, e quindi l’opera stessa è come fatta di variazioni, oscillazioni, deviazioni dal tema del finale. Il tema del finale, nei Dodici, è quello di Cristo. Ha notato Viktor Sklovskij che “il finale inatteso col Cristo illumina nuovamente tutta l’opera. Comprendi il numero di “dodici”. Ma l’opera resta ambigua e calcolata su questa ambiguità”. Dove per “ambiguità” non s’intende un accoglimento equivoco della rivoluzione, ma quell’ “ironia”, che, per Sklovskij, è “il procedimento della simultanea percezione di due fenomeni discordi, ovvero il simultaneo riferimento di un medesimo fenomeno a due ordini semantici”. In questo senso i Dodici sono un poema “ironico”. L’ “ordine semantico” alto, nel poema di Blok, s’accende nel finale e dal suo riverbero si rischiara la composizione. Invertendo il senso della lettura, l’analisi può prendere le mosse dalla parte conclusiva, non per decifrare oscure significazioni, perché i Dodici non sono una scrittura in cifra, ma per proporre i necessari ausili extratestuali d’una libera lettura testuale.
Paradossale ma vero. La Russia sovietica, che di lì a poco sarà promulgatrice di un ferreo ateismo, trova sovente diffuse, tra i suoi primi cantori, le immagini e i miti della tradizione biblica e liturgica.
Tanto la cultura russa prerivoluzionaria era pregna di idealità cristiane che il serbatoio di forme simboliche cui quei poeti attinsero non poteva essere altro da tale religiosità.
E al seguito di Blok si trovano corrispondenze di tal sorta anche in Belyj e in Esènin; non solo, ma:
E’ noto come l’imagery di Majakovskij pulluli di figure e simboli del Vecchio e Nuovo Testamento, con un significato laico, anzi profanatorio e blasfemo, che però non riesce a far perdere loro tutto il peso dell’origine sacra.
Curioso davvero! E perché non ci riesce? Non sarà, forse, che pur misconoscendo di sicuro la religione cristiano-ortodossa, si annidi nel profondo della coscienza un intrinseco e ineludibile bisogno di religiosità? Senz’altro non teologica, ma umana?
Con la rivoluzione, i tormentati anni passati a presagire ed attendere eventi catastrofici e purificatori, sembrano trovare finalmente la loro conferma.
Eppure la Rivoluzione suscita in lui un nostalgico rimpianto; quando Majakovskij lo incontra davanti al Palazzo d’Inverno, trovandolo intento a riscaldarsi a un falò, gli domanda cosa ne pensi di quei fatti straordinari, Blok gli risponde “Bene”, però aggiunge, con molta tristezza negli occhi, che la sua biblioteca a Sàchmatovo, il luogo in cui ha vissuto la sua giovinezza e i suoi tempi migliori, è stata distrutta e data alle fiamme.
Dvenadcat’ è l’ultima vera fiammata della poesia blokiana; nei pochi scritti che gli succedono la sua forza cala a picco in un torpore sempre più spento, la luce che era nei suoi occhi si affievolisce rapidamente fino a smorzarsi e la sua vista piomba nel buio. Vive i suoi ultimi mesi di vita in uno stato larvale; quando il 7 agosto 1921 il suo cuore smette di battere, egli, dentro di sé, è già morto da tempo.