Spettacolo-concerto Majakovskij – II edizione. Bene e Rosselli (Cap. VI)
Come sempre avverrà in tutte le performances legate al nome di Majakovskij, c’è un sodalizio tra Carmelo Bene e un musicista. Stavolta è il turno di Amelia Rosselli, una figura molto interessante del panorama artistico italiano.
Figlia di Carlo e nipote di Nello, i due storici fratelli Rosselli il cui nome e il cui sangue si sono legati irriducibilmente alla Resistenza antifascista (assassinati nel 1937), Amelia nasce nel periodo dell’esilio parigino che spetta alla sua famiglia. Un’infanzia e un’adolescenza vissute tra il dolore, i piedi sporchi di polvere e il coraggio di coloro che scontano sulla propria pelle la dura condizione di essere esuli, costretta a peregrinare tra Francia, Inghilterra e Stati Uniti, cittadina apolide di un’umanità ossessionata dal concetto di nazionalità. Quando riesce a stabilirsi finalmente in Italia (1948) ha già intrapreso i suoi studi di musica e di composizione, a cui ora unisce l’interesse per la letteratura e la filosofia, arrivando così all’altezza degli anni ’60 a cimentarsi con la scrittura poetica, che sarà sempre più centrale nel suo futuro cammino artistico.
Ci sono dei vincoli sotterranei che a nostro avviso tengono insieme Rosselli, Bene e Majakovskij. Lei si avvicina all’ambiente dell’avanguardia ma ben presto se ne distacca, o meglio si pone in una posizione critica nei suoi confronti, così come accade a Bene e se vogliamo anche al poeta russo.
Se nella sua opera possiamo parlare di sperimentazione, intesa come neologismi, di una lingua come abbandono a un flusso, come unione di più lingue, è perché la lingua della Rosselli fu una lingua del buio, del privato, e, in quanto tale, labirintica e priva di codici.
Anche in ciò le affinità sono molteplici, dalla sperimentazione linguistica alla scrittura come flusso, alla poesia come buio di una dimensione privata irrappresentabile nell’ordine dei codici. La Rosselli pubblica i suoi primi versi nel 1963, per intercessione di Pasolini (grazie al quale Bene debutterà nel cinema), il quale definisce la sua scrittura poetica come una scrittura di lapsus,
versi fatti di distrazione quindi, di una grammatica di errori nell’uso delle consonanti e delle vocali […] una grammatica dalle mille possibilità metriche, una musica dalle forme non codificabili, un confronto, come dice Maria Corti, tra «la durata del tempo fra una nota e l’altra in musica e quella fra una sillaba e l’altra in poesia» […] liberando e chiudendo il verso in un frammentazione di emozioni che devono essere rimesse insieme. Una lingua personale quindi, una lingua privata che brucia «in un ardore che non può sorridersi» […] troviamo “schegge” del suo corpo, «vasi di tenerezze mal esaudite», «incontrollabile angoscia», come se fosse una decomposizione-ricomposizione di una scrittura in cui la ragione tenta di dominare la passione, fallendo, alla ricerca di una certezza, in continua nostalgia, urlata e soffocata, al ritrovamento di una tenerezza che potrebbe rasserenare, ma che è malata all’origine. Disse bene il critico Pier Vittorio Mengaldo a proposito della lingua della Rosselli definendola come «un organismo biologico, le cui cellule proliferano incontrollatamente in un’attività riproduttiva che come nella crescita tumorale diviene patogena e mortale» [… ] la leggerezza non le appartenne mai. Le appartennero piuttosto la provocazione, la furia, la perentorietà, l’immaginazione delirante. La passione che cercava una collocazione, la lingua che cercava una risposta.
Quante analogie in questa poesia fatta di lapsus, di buchi neri del linguaggio, di un rapporto stringente fra musica e poesia e fra queste e la loro genesi, fatta di carne autobiografica tesa in uno spasimo lacerante e totale, dove la vita e la morte si inabissano in un moto di furia delirante, dove la conclusione è tragicamente risolta con il suicidio. Quanta fragile umanità. Quanto strazio nel chiedersi: “In quale notte malaticcia, da quali Golia fui concepito così grande e così inutile?”
Le testimonianze trovate su questa seconda edizione di Majakovskij sono due brandelli di memorie che accennano più al rapporto tra Bene e la Rosselli che non allo spettacolo in sé. La prima ce la offre Bene ed è una rapida pennellata sulla sua figura: “gran talento musicale, una pazza che mi frustava in scena”. La seconda è riportata da Torricella:
Carmelo, tramite la poetessa di sinistra Amelia Rosselli, si era fatto prestare da una sezione del Pci molte bandiere rosse per il recital. Poi le aveva tutte bruciacchiate e appese al soffitto. Quando la Rosselli vide lo scempio, gli chiese: “E le bandiere della sezione?”. E Carmelo, sogghignando e indicando quelle sbrindellate, rispose: “Eccole!”. Amelia ingurgitò il boccone amaro senza fiatare: stava fumando una sigaretta, si avvicinò a Carmelo, che era a torso nudo per il caldo che faceva, e sadicamente gli spense la cicca sulla schiena.
Poche note ma efficaci nel rivelare un incontro tra due personalità infuocate. Tra i due c’era di sicuro una divergenza di rilievo e cioè che la Rosselli era chiaramente schierata su posizioni politiche di matrice comunista, Carmelo Bene no. E il sospetto è che questi fosse già al tempo assimilabile con il torrente in piena dell’anarchia, ben lontano dunque anche dal Majakovskij più sollecito nella militanza politica e di partito, ma forse, proprio per questa ragione, vicinissimo, affratellato con quello spirito majakovskijano che non si appiattisce mai su nessuna posizione di potere, irriducibile all’ossequio paralizzante che mostrano i subalterni verso chi li comanda. Quelle bandiere bruciacchiate e appese al soffitto di certo non fungono da semplice addobbo scenografico, esse sono connotate da una valenza ulteriore; potrebbero essere già il sintomo del fallimento rivoluzionario (che ritroveremo più avanti nell’edizione televisiva), ma sicuramente sono il simbolo di un ideale che è stato bruciato (magari dal fuoco anarchico di Carmelo Bene/Majakovskij e non dalla devastazione del regime stalinista).