Carmelo Bene: Majakovskij
Il divenire – Majakovskij, che Carmelo Bene attraversa nell’ arco dei primi vent’ anni di carriera, tra le molteplici dimensioni artistiche da lui create, è una delle tracce più feconde da esplorare e da cui trarre spunti per meditare su ciò che furono il suo senso dell’ Arte, della Poesia e della Vita. Attraversando una serie “di successivi ripensamenti e diverse edizioni, da riproporre ciclicamente nei momenti cruciali della sua storia”,
egli traccia dei segni particolarmente utili per chi voglia studiare le varianti e le invarianti della sua poetica. Per accingerci ad una disamina delle questioni da lui affrontate, sarà opportuno ricordare un pensiero espresso dallo stesso Bene nell’ autobiografia , in cui egli affermava di aver nutrito sempre un profondo rispetto per “la più grande blusa gialla”, per il Majakovskij–Uomo; invece la sua simpatia fu minore per il Majakovskij–Poeta e fu addirittura nulla per il Majakovskij–rivoluzionario. Potremo servirci di tale tripartizione per aiutarci a tenere unite e, simultaneamente, diversificate le nostre osservazioni finali sul divenire–Majakovskij. Circa la relazione tra il termine Uomo e il termine Poeta (Artista), nei precedenti capitoli è emerso in più occasioni (ad esempio, ripercorrendo le vicende del teatro di C. B. negli anni ’60, oppure nelle pagine sui poeti russi) quello che a nostro avviso è uno dei nessi principali, per mezzo di cui arrivare ad intendere il cuore di tutta l’ opera beniana: il nesso etica – estetica o, se si preferisce, il nesso arte – vita. Sulla scia di tale implicazione, si può riscontrare una fitta serie di analogie tra il corpus dell’ Arte di Bene e una precisa linea di tendenza che ha percorso uno degli itinerari più prolifici e meravigliosi nella storia dell’ Arte di fine XIX e XX secolo. Un sottile fil rouge che lega Vincent Van Gogh a Oscar Wilde, Vsèvolod Emìl’ evič Mejerchòl’ d ad Antonin Artaud, Majakovskij a Pasternàk – e potremmo aggiungere: Nietzsche a Sade. Un nesso, un filo rosso, ma potremmo anche dire un prisma (strumento artistico) che scinde e riflette la luce (vita) creando delle vere e proprie dimensioni spazio-temporali, delle realtà in cui la distinzione tra il vivere e il prodursi artisticamente subisce delle oscillazioni tali per cui si attenua e si accentua fino a smarginarsi e producendo così una fusione, un senso di in-distinzione; ovvero, il parallelismo fra Arte e Vita diventa sovrapposizione, diventa, come trasfigurandosi, un atto di coscienza.
Nell’ operazione di Bene, già all’ epoca del primo Majakovskij (’61) si riscontra una sovrapposizione significativa:
In principio, per Carmelo Bene, c’ è una sognata identificazione col Grande Vladimir, col poeta e con l’ uomo di teatro, con questo artista totale, ma ancor prima con l’Uomo, scritto con la maiuscola.
Da subito, dunque, l’ interesse di C. B. per Majakovskij non è relegabile ad un ambito esclusivamente tecnico-formale, perché c’ è un di più verso cui egli tende e che possiamo individuare nell’ interesse antropologico, che già qui è presente e che diventerà più esplicito e dichiarato nel corso degli anni, quando, per esempio, riferendosi al cinema farà una dichiarazione estendibile anche al suo teatro:
Qualunque tipo di prodotto filmato, di pellicola che scorre, che mi ponga problemi che riguardano l’ uomo come cittadino, in veste sociale, non mi deve interessare perché esce da quello che devo desiderare. Mi interessa la misura antropologica, non altro, gli statuti interni e non quelli esterni. Ciò che esce da questo è genere, è “informativa”, mi interesserebbe se fossi un filologo, o un filantropo piuttosto. Non sono né l’ uno né l’ altro, sono un antropologo: mi interessa l’ uomo da Adamo in poi, e i costumi che ha indossato a partire dal primo, la pelle.
Pertanto, il primo interesse di Bene è rivolto alla pelle di Majakovskij, ma per potersi insinuare sotto di essa, gli è necessario dapprima appropriarsi dei suoi versi e poi, per traslato, di lontano, del personaggio. Il Majakovskij-Uomo è raggiungibile attraverso il Majakovskij-Poeta e Artista, e con ciò intendiamo riferirci a un processo del tutto concreto e niente affatto metafisico. Nell’ imparare a memoria le poesie, nel leggerle e rileggerle ad alta voce, per ore ed ore, è come se Carmelo Bene-Attore si impregnasse di una qualche musica e questa cominciasse a risuonare in lui e per mezzo di lui. E la musica che si rivela nelle parole di Majakovskij è straordinariamente ritmica e dotata di una carica fortemente eversiva, ma soprattutto è in piena sintonia con la tempra del giovane Bene, imparentata con quella del poeta russo.
Il legame di parentela qui è lo stile, che ancora una volta riconduce alla matrice futurista. Ma stile, nel caso di Majakovskij, vuol dire parola che partendo da una figuratività grafica diviene l’ equivalente non mediato di un temperamento, fatto di esplosioni e di bassi continui, di un ritmo non contenibile, della felicità di essere «contro», dell’ orgoglio di scoprirsi libero e onnipotente, e poi un giorno dell’ angoscia impotente di avere troppo sognato. In questo stile Carmelo intuisce il contenuto, che è quello del suo essere vivo e ribelle, dell’ affermazione del proprio io a dispetto di una società e di un teatro che rimangono borghesi: ed ecco la parola inghiottita, divorata, consumata che poi si libera nella rivendicazione di un esistere, la parola come azione e come vita comporsi in un tutto unico con la rottura dei gesti, con la frammentazione spaziale dell’ intervento di Bussotti, calata anche quella in una precisa temperie di citazioni e di ricordi.
E’ singolare il fatto che, in tutta la sua carriera, Bene trascuri il Majakovskij drammaturgo per dedicarsi esclusivamente al poeta, eppure, attuando tale scelta, si trova a far rivivere le parole del futurista russo in tutta la loro teatralità; anzi, la straordinaria intuizione è proprio nel rivelare come Majakovskij sia egli stesso il suo teatro. Un teatro in cui egli è il protagonista assoluto, un teatro che si vive giorno per giorno, in strada, fra la gente, passeggiando con una blusa gialla che attiri sì l’ attenzione dei passanti ma che al contempo custodisca e protegga l’ anima, un teatro, soprattutto, in cui la forza della parola esplode dall’ alto di una tribuna e travolge una platea spesso contrapposta e contestata. E tutto ciò si rispecchia a meraviglia nelle esperienze del Teatro Laboratorio e del Teatro Carmelo Bene, in cui l’ artifex salentino sperimenta alcuni importantissimi momenti del suo divenire – Majakovskij. Segnatamente, C. B. scopre che Bene-Majakovskij è di per sé “un gesto d’ urto” (G. Bartolucci).
A questo punto occorre fare una precisazione inerente il Majakovskij-Rivoluzionario. A Bene “manca il confronto concreto del Cambiamento Storico: Carmelo Bene è un Majakovskij orfano della Rivoluzione.” Inoltre egli non si schiererà mai dietro una bandiera e la sua coscienza politica sarà sempre nel segno dell’anarchia, dell’ anti-civiltà e dell’anti-storicismo (fino a spingersi verso i lidi dell’ irrappresentabilità di sé). C. B. può attuare la sua Rivoluzione solo nel mondo dell’ Arte, per poi maturare la consapevolezza che ciò non cambierà né il mondo né l’ Arte. Tuttavia, da attore, egli si sforza nel tentativo di trovare un modus operandi che sia insieme metodo e contestazione dell’ interpretazione “borghese”. Della portata rivoluzionaria di Majakovskij, pertanto, viene estrapolato lo spirito operativo e contestatore, depurato dalla componente marxista in senso stretto; avviene così che Bene:
di fronte al materiale drammaturgico di M., non ha resistenze di carattere ideologico, e lo accetta qual esso è in realtà, cioè uno stupendo agglomerato di prese di posizione vitali e tecnicamente ineccepibili, la letteratura e la vita dandosi la mano, e proiettandosi drammaticamente contro la società, su una trasformazione qualitativa del testo stesso, non soltanto in direzione tecnico-formale; e infine vi si butta […] con un controllo specifico delle energie a disposizione e con la esaltazione di un momento specifico di libertà interpretativa, […] costituendo via via nel fare un preciso indispensabile glossario di interpretazione rivoluzionaria, nella quale letteratura e vita riacquistino senso e concretezza e significato, fuori da ogni ricostruzione e approssimazione, per alternanza conoscitiva.
Dunque, attraverso i vari Majakovskij degli anni ’60 Carmelo Bene mette a fuoco, dopo averle create, tutta una serie di componenti gestico-fonetiche con cui comporre un “glossario di interpretazione rivoluzionaria” e, nel far ciò, impara a disporre e a gestire questo materiale; impara a vederlo criticamente, cioè a riflettersi su di esso per studiarsi come attore e come Majakovskij. Ma se
Il vitalismo di quella presenza si dibatteva ancora nella foresta dei segni di una rivoluzione espressiva, [dopo gli anni del cinema e con l’approdo alla televisione,] l’ adesione di Carmelo Bene diviene esistenziale, in un quadro fisso in cui troneggia, diagonale, […] il suo volto, in segno di suprema identificazione. […] Correlativamente all’ evoluzione dal primo al secondo teatro di Carmelo Bene, dal messaggio di una rivoluzione estetica passiamo all’impotente constatazione dell’ inutilità dell’ arte. Se attraverso il personaggio Majakovskij continua a andare in onda una rivelazione autobiografica, ormai non è più alla suggestione di rivolta che si dà spazio quanto a una comune volontà di suicidio, alla trasmissione di un testamento.
Questa significativa variazione si trova espressa (come s’ è detto) già nel titolo Quattro diversi modi di morire in versi, ed è ulteriormente confermata dalla scelta di ampliare il tessuto poetico con altri testi, con altri autori (Blok, Esènin e Pasternàk), il cui innesto determina una moltiplicazione di occhi, di vite, di modi e di possibilità differenti che, ciò nondimeno, sono tutte inevitabilmente destinate a convergere verso l’ annullamento totale, accrescendo così il senso tragico. Nell’ ultima edizione, invece, tutto sembra avere inizio dall’ annullamento e, in particolare, dall’ annullamento dell’ attore stesso; infatti decade ogni forma di interpretazione che non sia esclusivamente musicale. La volontà di suicidio viene oltrepassata con la morte dell’ io, così che l’individuo si smarrisce nella soggettività. [L’ individuo] è il luogo della rappresentazione di un ordine mondano non-mitologico che non può darsi senza la scissione io-soggetto e, attraverso questa, io-mondo. La soggettività è altro: è la condizione singolare e irripetibile dell’ essere al mondo senza poter accettare di finire nel mondo, come tutte le cose che vi finiscono in quanto enti mondani e deperibili. Ciò che si può dire della soggettività è che difende una disunità irrappresentabile, il radicamento si sé a sé, a tutti i livelli: biologico, fisiologico, psicologico, passionale, intellettuale. La disunità del soggetto che non si fa io, che resta aderente ai processi singolari del vivere al di qua della unità della rappresentazione, al di fuori dell’ attendibilità del linguaggio. E’ questo il riflesso impossibile (in quanto non rappresentabile) di Narciso, ovvero Narciso come riflesso non riproducibile.
POSTILLA
Ogni volta che si è precipitati nella realtà della forma umana, ci si offre la necessità di danzare sulle note di una musica universale. Qualcuno o qualcosa crea l’ incanto di un movimento che traccia dei segni: come in un sogno un uomo vive, sente, pensa, muove una mano attentamente nell’ aria mentre con l’ altra distrattamente muove una penna sopra di un foglio, così, come gli accade di essere: semplicemente. Ma fuori da ogni idea di volontà, tutto ciò che accade è tale solo in quanto necessario (così l’ aforisma di Schopenhauer: “E’ certo che un uomo può fare ciò che vuole, ma non può volere che ciò che vuole.”) . Se si arriva a riconoscere l’ illusione, improvvisamente essa scompare, come piombando nell’ oblio di un’antica memoria: è il risveglio del Vuoto che è in noi, di quell’ unico legame esistente tra tutte le cose. Come se il Nulla fosse tutto ciò che esistesse. Il non-essere è il solo essere. E’ come un cieco che si osserva nello specchio. E Tiresia, dopo un tale riconoscimento di sé come totalità del nulla, “parlare non può più ma può cantare parole incomprensibili”. L’ uomo, passando, traccia dei segni per potersi conoscere attraverso e oltre l’ esperienza. Ma prima di assurgere ad una tale realtà bisogna disfarsi dell’ io: sottrarsi, smarrirsi nella volontà di conoscere l’ oggetto del proprio volere e, proprio così facendo, fondersi col proprio oggetto; e quindi mis–conoscersi dalla qualità di soggetto. E’ la dis-individuazione dell’ io; è la volontà di potenza, che non è una volontà di assatanamento, bensì un fatto energetico: lo smarrirsi del soggetto nello spazio e nel tempo del Vuoto, nella Grandiosità del Vano; coincidendo pienamente con quell’ immediato svanire nell’ alone del suono, nel tempo aiòn; e nel cercare di verificare se stessi, ci si esperisce in quanto e come in-verificabili. O almeno, questo è quanto Carmelo Bene sente e riconosce (umilmente) esser vero per lui. Soltanto essendo onesti e sinceri con se stessi, si può essere uomini ETICI e quindi ESTETICI.
(Che tanto rischia un bel Nulla chi non s’appartiene!)
Quanto più i pensieri e le emozioni si avvicineranno fino al punto in cui entrambi, soggetti del conoscere, non svaniranno nella co-incidenza di un unico punto, tanto più l’ illusione di questa vita svanirà nella nuova consapevolezza che la vita la si può guardare soltanto come un sogno, tenuto insieme in tutta la sua ampiezza da un’ unica condizione: la Necessità del Vuoto. Necessità sola che giustifichi il pieno dello spazio e del tempo. Unico très-d’ union reale fra la distanza che passa tra il finito e l’ infinito. Tutto il falso problema della conoscenza ruota intorno a questo punto: che la sola definizione possibile della Verità sia in realtà Indefinibile: “La verità non esiste. Non esiste per il semplice fatto che ci è dato soltanto nel delirio del linguaggio: nominare le cose, e non conoscerle.” Come risalendo da un sonno profondo, ancora esitante tra la veglia e il sonno, egli si concede all’ unica esperienza conoscitiva possibile: il ri-conoscimento dell’ oblio, la coscienza del vuoto attraverso cui passano le forme, il Nulla da cui e verso cui procede la dimensione umana, il Nulla tutto che essa è.