Vladimir Vladimirovic Majakovskij (Carmelo Bene: Cap. X)
È facile accomunare la personalità di Majakovskij al fermento storico e letterario dei primi anni del ‘900, che sono caratterizzati da un forte rifiuto per il passato. Tra il 1910 e il 1915 il mondo letterario russo è interessato dall’emergere del futurismo, che getta ombra sul movimento simbolista “ormai invecchiato” rifiutandone la teoria e la pratica poetica.
Quattro furono i gruppi futuristi del primo periodo: egofuturismo, Mezzanino della poesia, Centrifuga, Gileja (noto successivamente come cubofuturismo). L’egofuturismo fu creato a S. Pietroburgo nel 1911 dal poeta Igor Severjànin: il distacco dalla tradizione simbolista è ancora debole e incerti sono i tentativi di innovazione sia lessicale sia tematica. Nonostante la denominazione avveniristica (furono loro che introdussero la parola futurismo), il gruppo si richiama più volte alle formule della tradizione romantica. Un secondo gruppo nasceva a Mosca con il “Mezzanino della poesia”: ne era capo Vadim Šeršenevič, molto vicino all’egofuturismo nell’eclettismo e nell’urbanismo a sfondo salottiero. Meno programmaticamente polemico nei confronti del passato letterario fu il gruppo di “Centrifuga”, noto soprattutto per aver avuto tra i suoi membri il giovanissimo Pasternàk. Il più significativo e solido, e certamente quello che accolse i poeti di gran lunga più geniali, tra i gruppi del primo futurismo fu Gileja. Il nome deriva da Hylaea, che era il nome dato dagli antichi Greci alla regione di Taurida. “Hylaea, l’ antica Hylaea, calpestata dai nostri piedi, assumeva il significato di un simbolo e doveva diventare una bandiera”.
Il gruppo fu fondato dai tre fratelli David, Vladimir e Nikolaj Burljuk e Benedikt Livšic. A loro si aggiunse in un primo momento Viktor Chlebnikov (poi chiamato Velimir), seguito da Vladimir Majakovskij e Aleksej Kručёnych. Inizialmente il movimento si avvicinava più al primitivismo che al cubismo.
I gileiani esordirono nel 1910, anno della grande crisi del simbolismo, con un almanacco poetico (i russi chiamano almanacco qualsiasi miscellanea letteraria non periodica) dal titolo “Sadok sudej” (“Vivaio di giudici”). Il titolo gioca sul doppio senso della parola russa “sadok” che significa vivaio, ma anche trappola. Ne erano firmatari Chlebnikov, Vasilij Kamenskij, David Burljuk, a cui si unirono poco dopo Majakovskij, Benedikt Livšic e Elena Guro. Essi pubblicavano manifesti provocatori che rifiutavano l’eredità culturale, schernivano le autorità del mondo intellettuale, affermando con deliberata impudenza la propria superiorità.
Il manifesto più noto apparve nel secondo almanacco “Schiaffo al gusto del pubblico” (1912), dove veniva dichiarato il più completo distacco dalle formule poetiche del passato, la volontà di una rivoluzione lessicale e sintattica, l’assoluta libertà nell’uso dei caratteri tipografici, formati, carte da stampa, impaginazioni.
Fu nel 1913 che i gileiani divennero noti come “cubofuturisti”. La denominazione “Gileja” non fu tuttavia abbandonata. Alla fine del 1914 lo stesso Majakovskij scriveva in un articolo di giornale: “Furono i giornali a battezzarci [okrestili] futuristi”. David Burljuk fece la stessa affermazione nelle sue memorie. Furono loro (a quanto sembra) a prendersi la responsabilità di accettare quel nome che i giornali usavano indiscriminatamente, per ragioni pratiche, e quindi misero il resto del gruppo di fronte al fatto compiuto. La loro principale ragione, nel fare ciò, sembra dovuta al fatto che agli occhi del pubblico qualunque manifestazione d’avanguardia veniva ormai collegata al futurismo e che accettarne l’etichetta era un modo sicuro di raggiungere l’egemonia in questo campo. Si può anche capire perché Majakovskij fu in parte responsabile dell’accettazione del termine: era l’unico vero poeta urbano del gruppo e si trovava forse a disagio nel primitivismo a tendenza contadina di Gileja.
Quanto al prefisso “cubo”, le ipotesi sono due: o lo aggiunsero i gileiani stessi in modo da non essere confusi con gli egofuturisti o con i futuristi italiani, oppure fu la stampa ad aggiungerlo al nome dei futuristi di Mosca a causa delle relazioni tra la pittura cubista e le idee futuriste del gruppo moscovita.
La differenza tra egofuturisti e cubofuturisti consisteva nel fatto che i primi ricercavano la venerazione della folla, i secondi la sua ostilità, un lusinghevole riconoscimento negativo (“noi”, in mezzo a un mare di fischi e indignazione). Ma il bisogno di misurarsi con la folla li univa.
Per quanto riguarda i rapporti col futurismo italiano, non furono dei migliori. Forse l’evento che ci può far capire meglio questa affermazione fu la visita di Filippo Tommaso Marinetti in Russia nel 1914. Egli arrivò a Mosca ai primi di febbraio, ospite alla Società di Libera Estetica. Baraonda indescrivibile. Il “nemico delle vecchie etichette” aveva appena cominciato a parlare nel suo tono oratorio-sofistico, che dalla sala si levò un brusio da alveare. Il viso ricamato da geroglifici neri, un mazzo di cucchiai di legno all’occhiello del pastrano, erano entrati David e Nikolaj Burljuk, Kamenskij, Chlebnikov, Majakovskij (che aveva interrotto la tournée proprio per partecipare alla campagna anti-Marinetti) e il pittore Kazimir Malevič. Facevano pernacchie, emettevano grida stridule, come di pipistrelli. Furono zittiti dagli uscieri che minacciarono di chiamare le guardie. Si ristabilì il silenzio. In quel silenzio quanto mai precario, Marinetti toccava i vari punti del suo programma sovvertitore. Sparpagliati nell’aula, i budetljane, che nel frattempo erano cresciuti di numero, raccoglievano intorno a sé dei capannelli e spiegavano che quando Marinetti parlava di futurismo come fenomeno di popolo, era in perfetta mala fede. Non aveva visto chi c’era in sala? Belle donne, professionisti, funzionari, accademici. La poca gente di strada attirata dall’evento stava lì intorno a loro, ai budetljane, e a loro si univa nel fare azione di disturbo. A un certo punto Livšic lanciò in sala un uovo e venne allontanato per eccessi. Marinetti rispose al gesto con un insulto. Malevič gridò: “Cadavere!” e Majakovskij, sventolando la sua blusa gialla, aggiunse: “Ti seppelliremo”. Fu il caos.
Ciò che accomuna i futuristi italiani con i russi è solamente il rifiuto del passato, del museo e dell’accademia, o del cosiddetto akstarё (vecchiume accademico).
Significativo il legame con pittori d’avanguardia come Michail Larionov, Natal’ja Gončarova, Kazimir Malevič, che spesso illustrarono le raccolte poetiche futuriste.
Anno di grazia per i cubofuturisti fu il 1913. Oltre a compiere tournées poetiche per tutta la Russia, usando l’espediente pubblicitario sconosciuto ai precedenti movimenti letterari, esordirono in teatro con Vladimir Majakovskij: tragedia di Majakovskij e Vittoria sul sole di A. Kručёnych. Inoltre le numerose apparizioni pubbliche di futuristi russi a Mosca, Pietroburgo e in provincia suscitarono l’interesse dei lettori, nonché la curiosità assidua dei giornali. Gran parte di queste apparizioni pubbliche furono organizzate da David Burljuk, tipo estroverso, geniale, irruente, aggressivo e pronto nel
capire che la teoria e la pratica poetica da sole non avrebbero attirato sufficiente attenzione. Burljuk riuscì anche a persuadere Vasilij Kamenskij a rientrare dal suo ritiro agreste per riunirsi a loro; una mossa particolarmente astuta perché Kamenskij era un pilota famoso, e come tale in grado di presentare buone credenziali a qualunque autorità cittadina, propensa a vedere nei futuristi dei disturbatori potenziali.
Kamenskij tuttavia non partecipò alla prima apparizione indipendente di gruppo dei futuristi russi, tenutasi il 13 ottobre a Mosca. I manifesti che l’annunciavano furono stampati su carta igienica e l’evento venne annunciato come “il primo recital dei creatori della parola [rečetvorcy] in Russia”, con conferenze di Majakovskij (Perčatka
[guanto]) e di David Burljuk (Doitel’ iznurёnnych žab [Mungitore di rospi esausti]). Era prevista la partecipazione di altri membri di Gileja. L’evento fu preceduto dalla celebre uscita dei gileiani sul Kuzneckij Most, una strada del centro. Vestiti bizzarramente, le facce dipinte, un cucchiaio all’occhiello, i futuristi sfilarono lentamente lungo il Kuzneckij leggendo le loro poesie. Colui che godette di più tale “mascherata” fu Majakovskij, che inaugurò in quell’ occasione la sua famosa blusa gialla. Codazzi di curiosi li seguivano. La serata attirò molto pubblico.
La guerra segna la fine del primo futurismo. Muore il futurismo come idea di pochi eletti, perché tutti diventano futuristi. È importante notare che il gruppo accoglieva poeti molto distanti uno dall’altro, e questa fu la principale causa della sua graduale disintegrazione. Dopo la rivoluzione del 1917, gli ex gileiani tornarono a raggrupparsi,
assorbirono poeti non gileiani, fecero uno strenuo tentativo per assicurarsi il potere letterario nel giovane stato sovietico e, in generale, crearono l’impressione che essi solo rappresentavano (e avevano rappresentato) il movimento futurista in Russia. Non c’è dubbio, naturalmente, che essi furono il gruppo futurista centrale; essi iniziarono la storia del movimento, nell’insieme produssero i migliori poeti e le personalità più brillanti e dominarono la scena più di chiunque altro.
Vladimir Vladimirovič Majakovskij (Bagdadi, Georgia, 1893 – Mosca 1930) si avvicinò alla politica molto presto. Già nel 1905 la sorella Ljudmila gli portò da Mosca libri socialisti e poesie di agitazione che destarono il suo interesse. Nel 1906 il padre morì e tutta la famiglia si trasferì a Mosca, dove per far fronte alle difficoltà economiche la madre subaffittava camere. Gli studenti che alloggiavano in casa Majakovskij presto lo mettono in contatto con le organizzazioni rivoluzionarie. Poco più che quattordicenne, Majakovskij aderisce al partito socialdemocratico bolscevico (allora illegale) e va a far propaganda tra gli operai e gli artigiani. Volantini illegali, tipografie
clandestine, evasioni di detenuti politici: le attività da cospiratore lo attraggono. Arrestato tre volte, le prime due viene presto rilasciato grazie alla giovanissima età. La terza volta resta in carcere sei mesi, cinque dei quali trascorsi in cella di isolamento. A sedici anni cinque mesi di isolamento sono lunghi. Majakovskij li riempie di letture, di
riflessione. Vede sempre più chiaramente che l’arte è la sua strada (aveva già il presentimento di essere destinato a grandi cose, l’idea di “Spaccare Dio/fino all’Alaska”), ma è indeciso tra pittura e poesia. Quando torna in libertà ha già fatto la sua scelta: “Voglio fare un’arte socialista”.
Nel 1911 si iscrive all’Istituto di pittura, scultura e architettura, dove incontra il poeta David Burljuk. Entrambi vengono espulsi dall’Istituto nel 1914 per la loro attività futurista. La pittura ha un’importanza determinante nella formazione di Majakovskij poeta. Le foto dell’epoca ci mostrano un ragazzo spettinato, con una lunga casacca e un grande fiocco nero al collo. La sera, e fino a tarda notte, se ne andava in giro per la città, da solo o con Burljuk, osservando le case, i lampioni, le insegne che ben presto popoleranno la sua poesia. Camminando, si appropriava della città. Mosca è per il poeta
un’inesauribile fonte di immagini. Camminando rifletteva, componeva i suoi versi. La camminata di Majakovskij entra in molti suoi versi, specialmente negli anni giovanili, e ne segna il ritmo. (“Vbivaju gulko šaga svai, brosaju v bubny ulic drob’ ja” “Po Nevskomu mira, po loščenym polosam ego, proflaniruju šagom Don-Žuana i fata” ). Le sue prime poesie furono composte per la strada, tra il fumo delle sigarette, e non a tavolino.
Il tema rivoluzionario si intreccia per la prima volta con l’amore (“La polifonicità della poesia di Majakovskij sta nell’intermittenza di entrambi i generi distinti”). Nella vita di Majakovskij accadde un evento determinante: nel luglio 1915 conosce Lilja e Osip Brik. “Una data felicissima” scrive. Ha inizio la lunga amicizia per Osip (critico e teorico del futurismo), il tormentoso amore per Lili. L’amore tra il poeta e Lili nasce sotto il segno della poesia. Fino alla morte di Majakovskij, e anche dopo, Lili sarà “la donna del poeta”. Quasi tutte le raccolte poetiche sono dedicate a lei. Il giorno dell’incontro con Lili è l’inizio di un amore tenace, profondo, come testimonia il messaggio scritto alla vigilia del suicidio; di un amore combattuto, lacerante fin dal suo nascere, come ben mostrano i versi scritti nel 1915-16. Elemento dominante nell’amore fu per Majakovskij la follia. Follia allo stato più insanabile e acuto. Quando Lili disse a Osip che lei e Majakovskij si erano innamorati, decisero insieme che non si sarebbero mai separati. Vissero infatti tutti e tre insieme, materialmente e spiritualmente, in un connubio spesso pericolante, incrinato da dissidi e gelosie, da separazioni e riconciliazioni improvvise.
Majakovskij accolse con entusiasmo la rivoluzione d’ottobre. Nei primi anni post-rivoluzionari è infaticabile, partecipa al rinnovamento di tutti i settori della vita artistica scrivendo versi e poemi sulle vittorie socialiste, su Lenin, dipingendo le cosiddette “finestre della ROSTA” (sorta di cartelloni propagandistici con slogan o couplets satirici, destinati a riempire le vetrine dei negozi vuote di prodotti dopo il disastro economico seguito alla guerra civile), scrivendo brevi “agit-p’esy’ (commedie di propaganda, 1920-21), sceneggiature cinematografiche, fondando riviste (LEF e Novyj LEF), intervenendo con irruenza in tutti i dibattiti, in tutte le controversie letterarie, schierandosi sempre dalla parte degli innovatori. Sul finire degli anni venti ricominciò a scrivere per il teatro. Del 1929 è La cimice e dell’anno dopo, pochi mesi prima del suicidio, è Il bagno. Nel febbraio del 1930 al Club degli scrittori di Mosca si aprì la mostra “Vent’anni di lavoro”, che riassumeva tutta l’attività letteraria e grafica di Majakovskij. Nessuno dei vecchi amici lo aiuta ed egli fa quasi tutto da solo. La mostra è accolta con entusiasmo dai giovani, ma la stampa la ignora. All’inaugurazione il poeta dice:”Perché mai l’ho organizzata? Perché, a causa del mio carattere rissoso, hanno tanto abbaiato contro di me, mi hanno accusato di tanti peccati, veri o presunti, che a volte mi viene voglia d’andarmene da qualche parte per restarvi uno o due anni, pur di non sentire più ingiurie. Ma, ovviamente, l’indomani rinuncio a questo pessimismo, mi armo di nuovo coraggio e, con le maniche rimboccate, riprendo a battermi, affermando il mio diritto a esistere come scrittore della rivoluzione e per la rivoluzione, non come un fantoccio”.
I trasalimenti di dubbio e incertezza si fanno più fitti nell’ultimo periodo e coincidono con il declino di popolarità di Majakovskij, a cui sempre più spesso venivano rimproverate l’oscurità e l’incomprensibilità della sua arte.
Gli ultimi frammenti che egli scrive sono versi d’amore, di disperazione. “Amare? Non amare? Mi spezzo le mani | e qua e là sparpaglio | le dita, una volta spezzate”.
Amore, rivoluzione, poesia: questo il groviglio di problemi intorno ai quali Majakovskij si arrovella anche negli ultimi momenti. Tutte le strade sono state sperimentate e tutte sembrano chiuse. Più nulla riesce a dare la forza di sollevarsi al disopra del “quotidiano”. Il 14 aprile 1930 Majakovskij si uccide con un colpo di pistola. La lettera di commiato, indirizzata “A tutti” porta la data 12 aprile. Dietro lo sparo c’è una convinzione ferma: “io non ho altra scelta”.
La primordiale intima unità tra la poesia di Majakovskij e il tema della rivoluzione è stata notata più volte. Ma senza attenzione è stata lasciata un’altra indissolubile congiunzione di motivi nella sua opera: quella della rivoluzione e della morte del poeta. Se ne trovano delle allusioni già nella tragedia Vladimir Majakovskij e in seguito il carattere non fortuito di questa congiunzione diventa “chiaro fino all’allucinazione”. Il poeta è la vittima espiatoria sacrificata in nome di una autentica risurrezione universale futura (il tema di “Vojna i mir” ). Quando nella corona di spine delle rivoluzioni verrà un certo anno, “vi strapperò l’anima e la calpesterò perché sia più grande; e sanguinante ve la darò, come una bandiera” (il tema della Oblako v štanach).
E adesso vediamo come reagirono alcuni illustri contemporanei di Majakovskij a questa morte sconvolgente. La poetessa Marina Cvetaeva esternò il suo pensiero e il suo compianto in una serie di amarissime e splendide liriche piene di ribellione all’ufficialità comunista: “Più in alto delle croci e dei camini, | battezzato nel fuoco e nel fumo, | arcangelo dal passo pesante – | salve nei secoli, Vladimir!”. Anna Achmatova disse che con la morte di Majakovskij era morta la giovinezza di molti, anche la sua. Uno fra i più colpiti fu Gor’kij. Quando seppe la notizia scoppiò in lacrime e non volle saperne di darsi ragione dell’accaduto. Scrisse pochi giorni dopo che la morte di Majakovskij gli si era “messa di traverso nella gola”. Anche Anatolij Lunačarskij (il commissario del popolo per la cultura, che lo aveva quasi sempre appoggiato) in privato pianse. Ma in pubblico fece un’orazione grandiosa, addossando la colpa del suicidio al suo sosia, e scaricando così i burocrati, il partito e lo Stato da ogni problema di coscienza. Eppure, come Blok custodisce un angelo triste ed Esènin un uomo nero, così Majakovskij dentro di sé ha davvero un sosia.