Alla ricerca di uno scontro
Se solo la dea pazienza avesse permesso di contarle, quelle nuvole, forse non sarebbero bastati tutti i pallottolieri commercializzati sul globo. Ai piani alti il sole poltriva sotto un piumone infinito di nubi di onice, mentre al piano terra il calendario annunciava, in rosso, l’arrivo in prima classe dell’autunno.
Il viola o il lilla? Scegliere quale camicia abbinare con quella longuette, che aspettava da mesi di essere rimpiazzata da una gemella noir in versione lifting, non era solo una questione di sfumature, ma soprattutto di tempo.
Licia portava davanti a sé ora la prima, ancora in apnea sotto il cellophane della lavanderia a secco di zia Carmela, ora la seconda, segnata in rilievo dai movimenti centrifughi di quella brontolona della Whirlpool. Un nevrotico dispiegamento di braccia di fronte lo specchio interno dell’armadio, con l’ansia di decidere, prima dello scadere del quarto alle 8.
Per i vicoli del quartiere di Santa Croce, si percepiva in lontananza il frastuono delle stoviglie appena passate sotto l’acqua corrente e sistemate ancora gocciolanti tra gli spazi sempre stretti degli scolapiatti in plastica bianca: le signore in vestaglia attendevano lo strabordare del caffè dalla moka ingrigita, ripristinando l’ordine nella cucina lasciata semivissuta la sera prima.
Atessa lasciava poco spazio all’immaginazione dello sfaccendare mattiniero, come se dietro ogni gesto, ogni suono, ogni odore, ci fosse la puntualità svizzera di un copione da commedia: erano le stesse finestre ad illuminarsi a neon dopo il trillo omicida della sveglia e a proporsi come vetrine di quotidianità paesana, sincronizzate al ritmo dell’avvicendarsi delle edizioni del telegiornale sul primo canale e ai rintocchi variegati, dal piano al forte, del campanile di San Leucio.
Don, don, don, don, don, don, don, don: le 8.
“Cornetto semplice, crema, marmellata, integrale?” – Pochi secondi per una delle scelte determinanti di inizio giornata, quella da cui dipendeva l’impostazione dello stato d’animo. Tullio conosceva bene il potere terapeutico di un impasto lievitato e sapeva già la risposta giusta per le sue papille.
Ci aveva riflettuto goloso mentre svoltava in Vicolo Storto, appena chiuso il portone di casa, e tentava di indicare ai capelli ribelli una direzione univoca. Solito maglione mattone sul pantalone a coste blu notte: comprati in occasione di una promozione multipla al mercato rionale di San Rocco, ne possedeva tre di ognuno, senza distinzioni di colore e tessuto. Così, anche quando rilasciavano ingenui l’odore dolce dell’ammorbidente aggiunto nel cestello, all’apparenza comunicavano una sciatteria incompresa.
“Integrale…da quando?”
“Da quando costa 1.69 invece che 1.85 euro!” – urlava dalla camera da letto Licia, intenta a sistemare le lenzuola agli angoli del materasso, pensando tra l’altro a quanto inutile fosse quel gesto: rifare il letto di giorno, per poi disfarlo di notte.
Giovanni aveva trovato una piccola novità quel lunedì mattina: fette biscottate di farina nera. Erano così friabili che si riducevano in briciole alla prima spennellata di confettura, cosa fastidiosa al risveglio, per uno stomaco bucato.
Si frantumava tra le dita impastate di crema al limone, e non c’era verso di aiutarsi con quei miseri tovaglioli da bar del centro: Tullio addentava quel cornetto sgretolante, chiedendosi dal di dietro della celluloide verde degli occhiali, se ci fosse mai stata una volta in cui non usciva di lì senza che i residui di sfoglia gli si attaccassero a ventosa, restando in bilico sulla piegatura all’altezza del collo, della sciarpa di lana.
E mentre sorseggiava il caffè macchiato, scottandosi ad ogni sorso una porzione di lingua, sbirciava tra le righe della pagina di sinistra del quotidiano del cliente vicino, leggendo in ordine sparso le parole, seguendo il ritmo degli spostamenti del lettore.
“Presidente – dimissioni – Fini – capo del governo – giusto indagare – pentiti dichiarazioni”.
“Il presidente del consiglio chiede le dimissioni di Fini, il quale ritiene sia giusto e opportuno indagare tra i pentiti, una volta rilasciate da questi, dichiarazioni pesanti a carico del capo del governo” – era la voce monotona dello speaker di Radio Studio Cinque, l’unica frequenza in modalità AM che quella grancassa riusciva a trasmettere. Giovanni aveva provato chissà quante volte a modificare la sintonizzazione, senza esito: perciò si recava nel suo studio, ogni mattina, al ritmo gracchiante di quella vecchia scatola. Rientrava nella lista dei regali ricevuti e conservarlo ancora significava non badare alla sua funzionalità, ma al suo valore. Perché Licia ne aveva uno tutto suo e speciale.
Anche quando non salava la pasta, passava l’aspirapolvere in sala durante il campionato in diretta, lasciava le scarpe lungo il corridoio o urlava al telefono con la madre in seduta dal parrucchiere.
Squillava. Lo sentiva, ma non lo trovava. In quella borsa formato big, il cellulare condivideva il destino delle sfere numeriche della tombola napoletana: bisognava rovistare, tastare le forme con mano, riconoscerne i contorni al tatto, ed estrarre.
Una Simphony nr40 in formato digitale implodeva nel buio plastificato di quella sacca, un vero labirinto di messa in gioco della pazienza. Licia la teneva con la mano sinistra, frugando con la destra alla ricerca della chiamata persa mentre il motivo mozartiano si faceva colonna sonora on streaming del suo tragitto verso l’ufficio postale.
“Una busta gialla per spedizione pacchi, una ricarica di cellulare da dieci euro, una copia della settimana enigmistica, grazie”.
Finalmente, si era deciso: quel manoscritto che aveva visto avvicendarsi troppe notti ai giorni, andava sottratto alla polvere e al timore del giudizio e inviato presto sulla scrivania tappezzata di post – it e risme di una casa editrice della provincia teatina. Tullio non aveva niente da perdere in quel momento, se non la testa, per un rompicapo trovato a pagina 15 del settimanale appena acquistato al tabacchi in Via del Corso.
Non lontano, lungo viale Cesare Battisti, Licia veniva assalita da un nervosismo irritante.
“Borsa dannata, tanto capiente, ma tanto inutile!Ma dove sei? Ma cosa squilli ancora?”
Il telefonino vibrava senza sosta, mimetizzandosi tra tutta una serie di oggetti, tipici del repertorio femminile del “portare con sé”: il portafoglio di pelle lucida viola, il portamonete in cocco, un pettine chiudibile, uno specchietto a chiocciola, il burro di cacao alla fragranza di ciliegia, l’agenda degli appuntamenti, un paio di bic inchiostro blu, una confezione di fazzoletti di carta, il disinfettante per mani alla menta peperita, caramelle alla frutta sparse, scontrini fiscali raggomitolati, molliche di pane raffermo e…il telefonino.
Ma dove? Verso destra o sinistra? Nella tasca grande o in quella piccola? La mano tasta, afferra, rigetta nella mischia mentre la vibrazione si espande nella cassa di risonanza di quella borsa carnivora.
Licia la scruta dentro, avvicinandola al viso mentre cammina. Un’occhiata per avere un quadro panoramico del contenuto ambulante e poi un rastrellamento frenetico alla cieca, guardando la strada che percorre a passo svelto, dritta verso la meta.
“Tonno e fiele…ton- no e fie-le…allora…fammi pensare…”. Tullio lo becca subito in alto a sinistra: un anagramma di quelli che si fissano in testa e ronzano tra i neuroni intorpiditi anche per ore o per giorni, lampeggiando ad intermittenza nel bel mezzo del da farsi quotidiano.
Legge e ripete quelle parole in grassetto come fossero un mantra mattiniero. Pensa e ripensa, compone e ricompone e cammina con la settimana enigmistica tra le mani e la testa tra le lettere.
Intanto Mozart non smette di esibirsi: Licia non si spiega perché non si arresti quella esecuzione infernale di note cablate, perché il mittente della chiamata sia insistente fino a quel punto: “Diamine! Se non rispondo perché insisti? Uffa, ma dove sei, telefonino disgraziato!”
Potrebbe lasciarlo squillare se non fosse per quella fastidiosa vibrazione che agita la borsa come fosse la propagazione ansiogena di un segnale di attenzione e di un ordine preciso: rispondi!
Licia abbassa per l’ennesima volta lo sguardo verso la sacca di tela, e sbircia di nuovo al suo interno. Una frazione di minuto che sottrae alla visione della strada che intanto prosegue in una svolta verso destra, e lo scontro preannunciato da una visione aerea della scena, accade:
Tullio, in Via del Corso, incantato dal suono mentale delle parole magiche, camminava in assenza di una bussola di orientamento e costruiva in aria il suo lego linguistico lasciandosi guidare dalle All Stars di tela verde; Licia, lungo Viale Cesare Battisti, si affannava in una ricerca impossibile, affondando faccia e mani in un pozzo di san patrizio tutto stoffa e vilpelle.
La percezione della geografia della strada non rientrava nelle facoltà mentali di nessuno dei due, alle ore 9.03 di lunedì 11 novembre.
Perciò la mancanza della messa a fuoco di quell’angolo di svolta, si traduceva in uno scontro frontale da gran premio. Licia perde il controllo della borsa che si svuota come un sacco di patate al mercato: il contenuto rotola sul marciapiede umido e si palesa in oggetti identificabili, non più da tastare alla cieca, ma visibili in maniera tangibile.
Lì, a terra, di fianco il portafoglio aperto dall’urto e allo specchietto ridotto a riflessi in pezzi, Licia lo trova, e lo urla: “il telefonino!”.
Tullio rimane fermo davanti a lei che si appresta a raccogliere in fretta, uno per uno, i suoi compagni di viaggio urbano: arresta il flusso di pensieri, fissa il movimento composto di “raccolta oggetti smarriti” e grida entusiasta:”Certo! Il telefonino! Te le fo ni no. Si! Grazie!”. E con la faccia soddisfatta di chi ha posto l’ultimo mattoncino della torre del castello, scavalca deciso la borsa, ancora aperta sul pavimento della strada, in attesa di essere rimpinguata, svoltando a destra. Licia, stranita, lo guarda dal basso, e lo segue con lo sguardo attonito.
Il telefonino, era divenuto, per volere del caso, oggetto indefinito di una ricerca ossessiva, condivisa in parallelo: due perfetti sconosciuti, in un incontro angolare, avevano trovato la soluzione al proprio rompicapo.