Ultime di Majakowskij (Carmelo Bene: Capitolo VIII)
Continua al teatro “Laboratorio” il successo dello spettacolo dedicato a Vladimir Majakowskij che Carmelo Bene e Giuseppe Lenti presentano da un mese. Nella situazione veramente drammatica del teatro romano e nazionale intricata dai pettegolezzi degli aristocratici circoli privati alle prese con costose compagnie straniere,
delle sterili polemiche sul divismo, sulla priorità dei testi e, soprattutto, sui problemi delle sovvenzioni, la dimostrazione della possibilità di un operare autonomo eppur rigorosissimo, ci è data dal teatro “Laboratorio” che, senza interruzioni, neppure estive, ha allestito in pochi mesi cinque spettacoli (“Gregorio”, “Pinocchio”, “Capricci”, “Majakowskij”, “Amleto”) proponendo in pretesti così diversi una coerente e precisa idea di Teatro. Risulta infatti evidente dalle stesse sollecitazioni del pubblico una insufficiente informazione nei riguardi del “T-61”: ogni sera gli spettatori si lamentano e scandalizzano di averne finora ignorato l’esistenza, o quanto mai di aver sentito gli echi di discorsi critici incompleti che lo hanno troppo spesso trattato alla stregua delle abituali compagnie giovanili di repertorio. Si ignora la presenza di un teatro nuovo solo perché legato alla cultura. Si ignora soprattutto che vive in Italia un attore rivoluzionario finalmente moderno come Carmelo Bene, così come non si conosce Giuseppe Lenti, assai noto a New York come regista cinematografico e trascurato a Roma. Perché? Chi sa spiegare il silenzio che circonda l’opera di Salvatore Venditeli, scenografo? Abbiamo assistito l’altra notte, par hasard, alle prove del nuovo spettacolo dal titolo Addio, Porco! che andrà in scena nei primi di dicembre. Sotto la direzione di Carmelo Bene abbiamo visto muoversi sulla scena attori nuovi, nuovi soprattutto per le infinite possibilità estroverse che il teatro ufficiale di oggi sembra avere bandito e che invece, sole, ci pare possano riportarci a teatro: un teatro che nulla abbia a che vedere con il cinema e soprattutto con la casa, continuamente riproposti questi ultimi, quello come mezzo e questa come ambiente a scapito di un discorso – anche divertimento – drammatico. Tra gli attori componenti il cast del nuovo spettacolo ci hanno impressionato Carmen Scarpitta (già attrice a Parigi e a New York) dalla voce incantevole. Giacomo Ricci (già stupendo Laerte) e Carmelo Bene, primo attore che, inimitabile, vorremmo vedere impegnato continuamente in un teatro Elisabettiano. Uno spettacolo, insomma, che raccomandiamo a quanti ad un teatro culinario, come diceva Brecht, preferiscono quel teatro in cui si sente il pungente odore dell’intelligenza e della forza.
Il Teatro Laboratorio, dunque, si pone al di fuori delle logiche in uso nel teatro corrente, sia di quelle organizzative legate alla produzione, sia di quelle estetiche. In un colpo solo supera tutti gli inghippi legati alle polemiche ufficiali, in cui si arenano quasi tutti, teatranti, critici, pubblico, burocrati e amministratori dello spettacolo; irrompe sulle scene ex abrupto, rivelando che la vitalità del fare teatro non può essere né estinta né generata dagli artifici di un ordine sociale imposto. La matrice di questo nuovo teatro è assolutamente anarchica e non teme affatto di incorrere nell’errore, al contrario, sembra che inizi fin da ora a farne un metodo.
Proprio allorquando aumentano, seppur moderatamente, l’adesione del pubblico e gli articoli e i consensi sui quotidiani, ecco che Bene tende ancor più l’arco della sua scrittura di scena, esente dal copione come nella migliore tradizione delle antiche compagnie di giro (di cui la D’Origlia-Palmi è ultima testimone), arrivando così a scoccare il suo colpo oltre i limiti sinora raggiunti: si spinge fino all’happening. Usiamo questo termine per praticità, ma senza implicare alcuna parentela con Warhol né tantomeno con il Living Theatre (che pure passa a Roma proprio durante l’estate del ’62). Il risultato è Addio, porco!, lavoro che non viene molto gradito, almeno da un indignato cronista dell’epoca che commenta così:
Indecoroso spettacolo al Teatro Laboratorio
All’inizio dello spettacolo Addio, porco! al Laboratorio, l’attore regista Carmelo Bene ha invitato gli spettatori a passare dai camerini per una breve lezione di maquillage. I coraggiosi o i curiosi che ci sono andati ne sono tornati con il viso dipinto di rosso, bianco o nero. E in tal guisa conciati hanno assistito alla prima parte dello spettacolo; ora una tale trovata può infastidire per il suo spirito infantilmente goliardico, ma rientra sempre nel lecito e nell’ammissibile. Così come è stata appunto la prima parte di Addio, porco! che come in Cabaret Gregorio già data al Ridotto si basava su una recitazione esasperata e violentemente satirica di vecchi autori del Sette e Ottocento, poetastri, librettisti, e simili giocolieri di vuote parole e di vuote smancerie. Talvolta Bene e i suoi esagitati attori riuscivano anche a divertire, ma quando nel secondo tempo essi si sono seduti ad una tavola a mangiare maccheroni al pomodoro dandosi ad un linguaggio da trivio, colmo di turpiloquio ed autentiche sacrosante bestemmie, pensiamo che ogni limite del buon gusto e della decenza sia stato ampiamente superato. A questo punto altro non rimane – come noi abbiamo fatto – se non alzarsi e andarsene; restare avrebbe significato accettare un tal genere di esibizioni.
Sulla scia di Addio, porco!, un paio di settimane più in là, va in scena Cristo ’63: la corda dell’arco viene tesa fino a spezzarsi. Arrivano i carabinieri, il teatro viene sequestrato, Carmelo Bene si dà alla latitanza per tre giorni e tre notti così da non essere processato per direttissima. E’ la fine del Laboratorio.
Dov’è il confine tra arte e vita? A quanto pare per Bene non esiste. E’ questo il più grande insegnamento che si possa trarre dall’esperienza condotta al Laboratorio.
Nei circa cinque anni subito susseguenti, dal 1963 al 1968, Bene si ritrova a sperimentare il suo teatro andando in scena nelle ordinarie sale romane, dall’Arlecchino al delle Muse, dal Teatro dei Satiri al delle Arti, e passando anche in spazi “alternativi” come il Beat ’72 (da lui inaugurato), senza escludere la partecipazione ad alcuni Festivals (a Spoleto nel ’64 e a Sarajevo nel ’66), e non mancano neppure delle piccole tournées italiane che lo portano a Modena, Torino, Palermo, Pisa, e che vedono il suo debutto nei teatri lirici. Nelle sue scritture sceniche trae spunto sia da testi teatrali classici, per lui nuovi (come Edoardo II di Marlowe, Ubu Roi di Jarry, Salomè di Wilde), sia da romanzi storicamente datati (Manon dell’Abate Prévost, Il Monaco di M.G. Lewis), oppure si affida alla scrittura di Roberto Lerici (per La storia di Sawney Bean), o collabora con Cuomo (Faust o Margherita), o, ancora, utilizza i suoi stessi scritti (Nostra Signora dei Turchi, dall’omonimo romanzo); e in tutto ciò riscrive anche opere teatrali già presentate (Pinocchio e Amleto, in quest’ultimo stavolta c’è l’innesto di Laforgue su Shakespeare).
Questo periodo, che nell’autobiografia Bene definirà come “gli anni di galera”, è ricco di importanti sodalizi artistici. L’incontro con Roberto Lerici, che gli consente anche di pervenire alla prima pubblicazione letteraria; inizia a lavorare con molti attori che si porterà dietro anche nel cinema e nella televisione, da Luigi Mezzanotte a Franco Leo, dai pasoliniani Giovanni e Ninetto Davoli a Franco Citti, ma su tutti bisogna ricordare Alfiero Vincenti, attore straordinario prelevato direttamente dalla compagnia D’Origlia-Palmi (così come prima Manlio Nevastri), il quale lavorerà a lungo al suo fianco e sarà un memorabile Re nei due Amleto per il cinema e la televisione, nonché fedele amico di gozzoviglie orgiastiche; importantissimo è l’incontro con la giunonica Lydia Mancinelli, che sarà sua compagna di vita e di lavoro per diciassette anni e con cui condividerà semplicemente tutto, la cui voce diverrà il naturale contrappunto alla voce di Bene; vogliamo ricordare ancora Vittorio Gelmetti, le cui musiche lo accompagneranno a lungo, e Alberto Arbasino il quale, insieme a Flaiano, si può dire che collabori con Bene dal momento che si ritroverà a difenderne il lavoro dagli attacchi di una critica spesso grossolana e pudica.
Proprio perché Bene continua a guadagnarsi illustri consensi, il coro delle voci dissenzienti, in particolare dal ’64, subisce una variazione significativa. Fenomeno che Quadri osservava lucidamente già dalla fine degli anni settanta:
E’ l’approdo a un secondo periodo, non per il suo “fare teatro”, che rimane sempre ancorato a un concetto (o a un’etichetta) di dissacrazione, quanto per il ruolo giocato dal personaggio sull’opinione pubblica. Dopo il primitivo rigetto, il “diverso” viene riconosciuto, purché lo si confini nel campo della parodia: Carmelo Bene viene accettato, ma come qualcuno che fa ridere, stravolgendo i moduli canonici con un altro tipo di lettura: e ecco il principio della demistificazione che prende quota.
E’ indubbio che ci sia in Bene qualche connotato specifico del “clown”, ma questa natura attinge la sua linfa vitale da una radice più profonda. Aggiunge infatti Quadri:
Vedendolo come giullare, può pure passare il legame lontano ma inesorabile con il gioco – qui estremamente intellettualizzato – della commedia dell’arte; ma si può anche arrivare a cogliere il suo costante riferirsi, proprio a dispetto del panorama corrente, ai modelli della tradizione recitativa, con un ponte che vuol collegarsi direttamente al grande attore ottocentesco, agl’interpreti shakespeariani della scuola inglese. L’aggancio popolare rispunta da questo insospettabile doppiaggio, mentre alla lezione di Martinetti si ricollega il costante innesto anche nel campo classico, anche in un Amleto simbolista di raro rigore, di un livello degradato attinto direttamente all’avanspettacolo. Non è stato forse Petrolini, grande interprete dialettale della scena romanesca tra le due guerre, con le sue immortali parodie, un primo parziale divulgatore della rottura futurista? E Petrolini trova una concreta citazione nei couplets del S.A.D.E.
I legami che il critico intende evidenziare sono confermati ancora una volta nell’autobiografia di Carmelo Bene il quale, riferendosi al Caligola di fine anni cinquanta, dice:
La mia era una recitazione molto ritmata, più in linea con il verso che con la prosa. […] Studiavo già allora tutte le voci liriche, i parlati d’opera, i recitati in musica. Studiavo anche Ettore Petrolini. Lo studiavo più di Ruggeri e Zacconi. Quella voce tagliente, quegli occhi di ghiaccio. Quel palese disprezzo per il pubblico, che gli attori italiani si sognano.
E si potrebbe andare ancora più a fondo, includendo nel discorso quel favoloso mondo di pagliacci, di clowns e di jongleurs, che Ripellino fa rivivere nelle sue splendide pagine dedicate all’universo russo di Mejerchol’d o di Blok, quello stesso universo grottesco che Majakovskij portava in giro conciandosi con i panni di un saltimbanco, in blusa gialla, lanciando sberleffi non per suscitare delle grasse risate, ma per colpire dritto al cuore un’umanità follemente immedesimata nella propria epoca.
Così, tra una vicenda e l’altra, tra le notti votate agli eccessi in compagnia degli attori del Living Theatre e i successi de Il Rosa e il Nero, tra gli incoraggiamenti di una cerchia di intellettuali sempre più ampia e l’acquiescenza o il dileggio di un pubblico sempre più numeroso, tra la crescente ondata di contestazioni studentesche e i manganelli di Stato, Carmelo Bene arriva al ’68 inaugurando un nuovo spazio teatrale.
Prendo questo teatro semiabbandonato dalle parti di Fontanella Borghese, in vicolo del Divino Amore. Per tagliar corto lo chiamo “Carmelo Bene”. E’ stato il mio ultimo laboratorio di ricerca, prima del cinema e dei grandi teatri di fine anni ’70 e ’80. Gli spettatori stavano incastrati nei banchi di scuola dell’epoca, stile lager. Ricordo Antonioni, Eduardo de Filippo. Faccio due, tre spettacoli, il Majakovskij, l’Arden, e un Don Chisciotte da Cervantes con Leo e Perla.
In realtà il Don Chisciotte va in scena al “delle Arti”, in ottobre, mentre nel nuovo teatro, a marzo, Leo de Berardinis e Perla Peragallo presentano Sir and Lady Macbeth. Il Teatro Carmelo Bene ha vita brevissima, pochi mesi, prima di chiuderlo C.B. lo lascia ad altri per farceli lavorare autonomamente; egli presenta nel suo teatro solo Arden of Feversham (in scena dal 15 al 29 gennaio) e la quarta edizione di Spettacolo-concerto Majakovskij (dal 30 gennaio al 26 febbraio).
Ormai, dopo il Convegno di Ivrea dell’anno precedente, si parla di cantine, di avanguardia, di scuola romana; nomenclature che si potrebbe essere indotti ad attribuire anche a quest’ultima breve fase beniana, ma bisogna ricordare che sono tutti termini sempre sconfessati dall’attore-regista:
le cantine (buone solo per prendere i reumatismi) e il teatro da martiri catacombali non mi hanno mai riguardato. La cosiddetta scuola romana (io, trentenne, avevo già messo in atto il mio secondo abbandono del teatro) fu un’elucubrazione di due critici allora molto influenti, Quadri e Bartolucci. Un’invenzione totale.
Spettacolo-concerto Majakovskij – IV edizione.
Il musicista che duetta con Bene, stavolta, è Vittorio Gelmetti. Egli ha già collaborato due anni prima ad uno spettacolo del maestro salentino, Il Rosa e il Nero (che per Bene resta il capolavoro insuperato di tutta la sua lunga carriera), componendo le musiche proprio insieme a Sylvano Bussotti. Una coincidenza che fa quasi pensare ad una staffetta, dove il testimone è appunto Majakovskij. Gelmetti curerà ancora le musiche per altri tre lavori di Bene, affrontando il teatro, il cinema e la televisione: Hermitage, il mediometraggio girato sempre nel ’68; La cena delle beffe, nella prima edizione del ’74; Bene! Quattro diversi modi di morire in versi, ancora del ’74.
Riportiamo qui di seguito due scritti che ci possono meglio illuminare sullo spettacolo; il primo è la recensione di un cronista, il secondo è una memoria di Franco Quadri (il quale, cosa divertente, definisce “cantina” il teatrino Carmelo Bene).
Majakovski detto da Bene.
Un’epoca difficiletta… Per l’allegria – è poco attrezzato – il nostro pianeta. Bisogna – strappare – la gioia – ai giorni venturi. Ovvia ironia, si direbbe, se non fiorisse sui versi giungendo dagli spasimi di un animo livido. Fra quella e questi ci corre un capello se non un abisso; dalla capacità di esprimersi mantenendo inalterata tale distanza, eterna e insieme irrisoria, nasce la poesia di Majakovski: un canto spiegato con ghigni d’interpunzione, un lungo volo che sfiora il palpitare dell’enfasi ma sa poi volteggiare in certi gorghi di lucidità e sa trascinare anche pesanti pietre, oggetti veri. E sa simulare uno scetticismo evoluto: “l’incidente è chiuso”, è il suo addio a un’amante, però subito sente il bisogno di parlare al creato rivelando passioni quasi d’altri tempi. Di tali passioni si muore nella Russia appena uscita dalla rivoluzione del ’17, quando non è ancora lecito voler stringere con affanno i primi germi del secolo trentesimo perché bisogna ricomporre con pazienza ciò che resta del ventesimo. Non è lecita l’insofferenza, neppure quella meravigliosa che si chiama poesia. Fra strisce di carta-crespo rossa appese al soffitto e bottiglie vuote che rotolano in terra, Carmelo Bene declama e prega i canti del poeta cercando in lui soprattutto sé stesso: le sue arsure, le sue esasperazioni, il suo “io”. Soprattutto il suo “io” di uomo sradicato fino in fondo e nemico di tutto, al punto di reinventarsi dilatato fino a coprire l’universo. Finge di accettare, impreca, sghignazza. Il teatrante di talento cerca soprattutto la teatralità della poesia di Majakovski, quell’insopprimibile smania di esibirsi facendosi beffa, di sfogliare sé stesso come una margherita, con grande amore e disperazione. Filtrato attraverso Bene il poeta sovietico rivelerebbe qualche timbro byroniano se non fosse per una causticità ultranovecentesca. Il connubio fra poeta e attore riesce comunque in pieno. Carmelo Bene ha l’accortezza di scegliere i versi che più gli si addicono ed ha la capacità di dirli con ardore e senza retorica. Lo accompagna la musica di Vittorio Gelmetti. Gli spettatori (che per una curiosa bizzarria dell’attore-regista, pagano metà biglietto se comunisti) applaudono sinceramente. Repliche.
Eppure nella sua operazione quattro metri di spazio diventano un microcosmo, pagina e spazio, universo e luogo storico. Lo ricordo ancora con emozione, nel ’68, giù nella cantina del vicolo del Divino Amore, da lui ribattezzata Teatro Carmelo Bene, col pubblico a pochi metri chiuso in sedili che altro non erano se non banchi di scuola recuperati. Pochi elementi, una corona di fiori, un leggio, uno scanno, gli serviranno a realizzare un’evocazione medianica che presto avrebbe germinato i suoi gesti angolosi e spezzati, sulla scia delle prime parole dette dietro le quinte con l’accompagnamento intermittente di un battito allusivo alla mitragliatrice liberatoria. Di fronte, un pianoforte ricoperto di oggetti quotidiani, i quali nelle mani di Vittorio Gelmetti che duettava con lui sarebbero divenuti altrettanti strumenti musicali improbabili e efficaci. Tutt’attorno i ciaffi di un disordine programmato: l’organizzazione della finzione per fare strada all’irrompere della verità; e a separare il Poeta dal piano, una cortina sfilacciata di carta rossa da stracciare e ridurre in pezzi, per abbattere ogni diaframma, per riportare direttamente al vivo l’immagine della propria delusione davanti al tradimento del potere. Il vitalismo di quella presenza si dibatteva ancora nella foresta dei segni di una rivoluzione espressiva.
A quanto pare la scena si presenta, sì, ridotta all’essenziale ma, a differenza di quanto ci veniva riferito nelle precedenti edizioni, sembra essere un po’ meno scarna di quanto apparisse prima. Troviamo le solite bottiglie sparpagliate che in alcuni momenti ruzzolano in terra facendo rumore; al posto delle bandiere del P.C.I. c’è l’equivalente di strisce di carta-crespo rossa appese al soffitto, che servono a separare lo spazio in cui si muove Bene da quello destinato a Gelmetti e servono anche ad essere strappate dall’attore-poeta per infrangere quello stesso diaframma; c’è una corona di fiori, che può essere simbolicamente associata tanto all’amore quanto alla morte della poesia; c’è il leggio, oggetto che diventerà sempre più inseparabile da Bene nelle future performance; c’è uno scanno, che può esser segno di onore e distinzione e simbolo della dignità o del grado di chi lo occupa e, soprattutto, facendo da contraltare ai banchi di scuola assiepati in platea, connota una preminenza acquisita per meriti, per qualità personali, come la supremazia intellettuale e culturale di un maestro di fronte agli allievi; c’è, ovviamente, il pianoforte e su di esso dei generici “oggetti quotidiani”, che vengono privati della loro funzione ordinaria e ri-funzionalizzati secondo imprevedibili potenzialità musicali; e per finire ci sono dei cenci buttati lì a dare la sensazione di un complessivo disordine. Pochi oggetti scenici, dunque, ma tutti altamente significativi.
Colpisce, in particolare nella recensione per la stampa, quel continuo sottolineare l’identificazione ricercata da Bene con il poeta futurista; e a sottolinearne la perfetta riuscita di tale operazione, citiamo un episodio davvero singolare:
Dalle cronache dell’epoca. Una signora in platea terrorizzata. La madre di Carmelo Bene. Nel suicidio di Majakovskij, il figlio prediletto agita in scena una “Beretta” autentica e tutto finisce con una revolverata in aria. L’apprensiva signora si aggrappa a Gaio Fratini, temendo che Carmelo si suicidi davvero. Si precipita a fine spettacolo in camerino, lui ancora tutto truccato di rimmel, pallore e smoking nero: “Non lo fare più figlio mio!”.
Sottolineiamo ancora un aspetto, che svilupperemo successivamente, legato a tale questione e determinante ai fini del presente lavoro. Nei due scritti troviamo delle parole-chiave, che sono: “declama e prega i canti del poeta”, “realizzare un’evocazione medianica”, “l’organizzazione della finzione per fare strada all’irrompere della verità”. Tutte queste espressioni rimandano a una sacralità del teatro e della poesia, in una parola: alla religiosità. Fermiamoci qui, per ora.
Lo “spettacolo” viene applaudito sinceramente, Fratini racconta di una platea commossa, Pasolini in prima fila; anche Bene ricorda “Ovazioni interminabili. Erano tutti commossi”. Molto più che uno spettacolo, è un miracolo. E come per ogni miracolo che si rispetti, c’è anche chi, senza fede, lascia recalcitrare il proprio scetticismo. E’ quel che accade a Parma, dove il lavoro viene presentato al teatro lirico (non sappiamo precisamente quando, ma di sicuro nel ’68); c’è qualche contestazione, ma stavolta non è indirizzata ai danni di Bene, bensì contro Gelmetti.
Se la prendevano con lui. Vittorio, con il suo pancione falstaffiano, gettava delle biglie sul pianoforte a coda. “Qui suona Michelangeli”, protestavano scandalizzati gli inquilini del “Regio”. “So quel che faccio, i miei sono lanci musicali, quando miro lì so di toccare il do diesis della tale ottava”, e via dicendo, replicava il maestro, che sbafava a quattro palmenti. […] La sera della prima, i loggionisti, a tutta prova della loro “competenza musicale”, evocavano a squarciagola Verdi e Toscanini. “Proprio quelli che vi hanno sempre sputato addosso”, replicai dal palcoscenico.
Chiudiamo questo capitolo riferendo un’ultima vicenda. Proprio mentre al Teatro Carmelo Bene va in scena Majakovskij, a Roma e nel resto d’Italia imperversano contestazioni, scioperi e manifestazioni. Sono cominciate da pochi mesi le prime occupazioni delle università da parte degli studenti, il movimento si espanderà ben presto arrivando a far causa comune anche con il movimento operaio e dando vita alla frammentata sinistra radicale: è iniziata l’epoca dell’azione collettiva. Anche nel mondo dello spettacolo ci sono dei conflitti in corso che sfociano, intorno al 10 febbraio, nello sciopero degli attori; durerà circa una settimana. Lo sciopero nasce dai settori cinema e televisione e la polemica ruota soprattutto intorno al perno del doppiaggio, ma sconfina subito anche nel settore teatrale (in realtà avulso dal casus belli), il cui sostegno viene chiesto e preteso; seppur a denti stretti, la quasi totalità degli attori e dei registi teatrali, nonché alcuni produttori, aderiscono e sospendono gli spettacoli. Quasi tutti…tranne qualche “recidivo” che, volendo andare in scena, si ritrova il teatro circondato di “colleghi” smaniosi di fermarlo. Ecco cosa riferisce un giornalista:
Gianni Garko e il popolare attore, circondati da tutti gli altri colleghi, hanno discusso vivacemente. “Se qualche spettatore entra io recito” diceva Carmelo Bene. “Ma non sei un attore come noi?”, rispondeva Gianni Garko, “Se volete – incalzava Bene – posso anche negarlo!” Sono volate parole grosse, qualche “Buffone!”, poi la polizia è intervenuta e la calma è tornata nel vicolo romano. Poi si è saputo che l’attore non aveva recitato per mancanza di pubblico.
In un’intervista rilasciata due giorni dopo Carmelo Bene si difende mostrando, a nostro avviso, un’incredibile coerenza con sé stesso e uno smodato amor per l’arte; coerenza e amore che non abbandonerà mai.
Il mio atteggiamento da quando ho cominciato a fare l’attore – ha sostenuto Carmelo Bene – è stato sempre di rivolta contro tutti gli organismi teatrali precostituiti, ufficiali. Non sono mai stato scritturato da nessuno se non da me stesso. Sono sempre stato contro tutti gli attori italiani, contro il loro modo stantio e vecchio di concepire il teatro, a cominciare da quando ho abbandonato l’Accademia d’Arte Drammatica e mi son messo a recitare in posizione isolata, con le mie idee, cercando di fare del vero teatro. I miei compagni d’Accademia, invece, vi sono rimasti per cercare, poi, di “impiegarsi” negli stabili o nelle compagnie ben solide economicamente. Quindi essendo io il datore di lavoro di me stesso, non essendo in polemica né col Ministero dello Spettacolo, né con la Rai-TV, né con l’ANICA, non essendo mai stato scritturato e quindi non avendo mai fatto parte di sindacati, non vedo perché dovrei scioperare contro me stesso. Gli attori scioperano per avere qualcosa. Io no, non voglio avere, voglio dare, voglio fare il mio teatro, libero dai manipolatori teatrali. Ad essere liberi, come lo sono io, si paga sempre di persona. Non mi interessano le sovvenzioni, voglio rischiare, ma desidero anche essere libero dai problemi sindacali. Non dico che tutti debbano seguire il mio esempio: a fare come faccio io ci si rovina, si può anche fare la fame. Gli attori in agitazione per sopravvivere hanno bisogno degli stabili, del cinema o del doppiaggio. Così diventano dei comuni impiegati, si riuniscono in categoria, rivendicano un guadagno sicuro per star tranquilli. Io non mi sento un impiegato, non lo sono mai stato, non voglio esser tutelato da nessun sindacato, non faccio parte di questa categoria. E quindi non sono un crumiro. Anzi, lotto, come ho sempre lottato contro il teatro così come lo intendono loro. Un teatro che deve morire e che sta morendo, a quanto sembra. Ed è paradossale che a condurlo alla tomba siano proprio l’ANICA, la Rai-TV, gli organismi ministeriali: ho trovato davvero dei collaboratori imprevedibili. Mi sembra più che logico, quindi, che non posso schierarmi con coloro contro cui lotto” . In questa requisitoria, il popolare attore si rivolge verso i giovani attori: “Abbiano il coraggio, questi giovani scioperanti, di salire da soli sul palcoscenico, di sottoporsi ad una naturale selezione, al giudizio del pubblico, e non a star riparati dietro strutture impiegatizie. Invece si stanno battendo per i loro “capi”, per procurare ai vari Stoppa e Cervi qualche carosello in più, e per carosello intendo anche gli spettacoli teatrali così come vengono messi su oggi. Non sanno, questi giovani, che non riceveranno niente, loro, proprio niente. Rimarranno quel che sono. Quindi non debbono permettersi di accomunare a questa campagna chi cerca di fare del vero teatro, magari sbagliando, commettendo degli errori, ma con assoluta onestà e con assoluto amore verso l’arte. Per questo considero un insulto il solo fatto di venirmi a proporre di solidarizzare con lo sciopero. Penso che il pubblico italiano aspetti attori che agiscono come me – ha concluso Carmelo Bene – attori che vogliono dare, offrire qualcosa e non avere. E devo dire che ci sono molti giovani che la pensano come me. Molti giovani che si affermeranno, che faranno parlare di sé”.
C’è forse qualche incongruenza tra questo Carmelo Bene trentenne e il Carmelo Bene sessantenne che dice, riferendosi al ‘68:
Un grande bluff. Da me puntigliosamente ignorato. Fosse stata anche la rivoluzione russa. Altro che avanguardia! “Non stanno per caso sputando oggi sulla loro poltrona di domani?”, dice Amleto in Shakespeare. ?