Spettacolo-concerto Majakovskij – III edizione (Carmelo Bene: Capitolo VII)
Visti i soli quattro mesi che separano questa edizione dalla precedente, è probabile che molti siano i punti di contatto tra le due opere. Intanto, però, c’è una differenza: il musicista. Adesso a duettare con Bene c’è Giuseppe Lenti. Non sappiamo molto di lui, ma a quanto pare già all’epoca era più conosciuto a New York che in Italia. Qualcosa in più, invece, si può dire sullo spettacolo in sé e questo grazie ad alcune recensioni apparse su quotidiani del tempo. Sarà il caso di riportarle per intero.
Majakowskij al “Laboratorio”.
Carmelo Bene e Giuseppe Lenti ci hanno entusiasmato ieri sera al Laboratorio. Era di scena Vladimir Majakowskij, poeta. Diremo schiettamente che la fusione e, quindi, l’esposizione che abbraccia il poeta russo fino al suicidio ci ha incantato ancor prima di illuminarci. Ecco i brani dello spettacolo collage: Viola, La nuvola in calzoni, Sergej Esenin, All’amato se stesso dedica queste righe l’autore, Di questo, L’ultimo dei frammenti. La strumentazione ritmica di Giuseppe Lenti, non mai basato sul sistema di accompagnamento di moda ai recitals, bensì personalissimo dialogo, parallelo al verso, ha permesso a Carmelo Bene di rappresentare con genialità estroversa i delicatissimi momenti del più grande futurista russo. I due interpreti principali si sono imposti anche per la chiarezza della realizzazione scenica, che ha soprattutto mirato a immergere la vita e la rappresentazione di un individuo eccezionale, come Majakowskij, nella palude dell’indifferenza della storia e della borghesia. L’éclarage, nell’esecuzione di Maria Cattani, ha efficacemente puntualizzato l’intendimento generale dello spettacolo, assumendosi tutta la responsabilità di una illuminazione, non già ambientale, ma significativa. Una serata indimenticabile animata anche dalla presenza di un pubblico più che numeroso (se si considera la capienza del Teatro Laboratorio): 34 chiamate al primo intervallo ed una ovazione finale hanno suggellato questo ultimo successo di Carmelo Bene, cui va tutta la nostra simpatia e gratitudine per questa serata majakowskijana che non dimenticheremo.
“Majakowskij” al Laboratorio.
Dopo Pinocchio e Amleto, nella sua personale e un po’ allucinata interpretazione, Carmelo Bene ha allestito uno spettacolo dedicato a Majakowskij, un collage di alcuni significativi momenti lirici del poeta russo. Una scarna scenografia segnata da decine di bottiglie e un pianoforte “elaborato” (dal quale escono i suoni di almeno altri dieci strumenti) accompagnano il recital di Bene, il quale si prodiga con il suo consueto estro di istrione (absit injuria verbis) malato di teatro. Il collage è naturalmente puntato sulla figura di Majakowskij, quale emerge attraverso le sue opere: un uomo inquieto, insofferente della mediocrità, proiettato verso il futuro. Ricordiamo tra l’altro Viola, All’amato se stesso dedica queste righe l’autore e soprattutto Di questo. Al pianoforte, sul minuscolo palcoscenico del Laboratorio, Giuseppe Lenti.
A parte il tono entusiastico che traspare nelle parole dei cronisti, indice di un apprezzamento da parte della stampa nei confronti del lavoro, emergono alcuni dettagli sullo specifico della messinscena.
Tanto per cominciare è uno spettacolo in cui si utilizzano dei testi (poesie) tenuti insieme con la “tecnica” del collage. Sarà opportuno chiarire subito che tale tecnica, tanto cara alle arti visive, permette di operare una sintesi estrema di frammenti inquadrati da differenti angoli prospettici, da differenti distanze e magari con differenti obiettivi, tutti ricondotti ad unità; e dove l’unità è data non necessariamente dall’oggetto artistico in sé ma dal soggetto che ne esperisce la visione. Inoltre la creazione di un collage si dà come flusso in divenire di forme che tracciano una variazione. Dunque Carmelo Bene adotta questa tecnica per mostrare una variazione-Majakovskij che passando attraverso “i delicatissimi momenti del più grande futurista russo” conduce al suicidio del poeta. E i titoli delle poesie selezionate coincidono con quelli delle future versioni, televisiva e concertistico-discografica e, se resteranno invariati per quasi un ventennio, sorge l’idea che anche le due edizioni precedenti, in particolare la seconda, siano legate ai medesimi.
Gli elementi scenografici sono minimi, pare che ci siano soltanto decine di bottiglie (facenti parte del corredo alcolico del Laboratorio di Bene) e il pianoforte di Lenti; non vengono nominate le bandiere rosse della seconda versione. E’ evidente che tra le premure di Bene non c’è alcun vezzo di fare l’arredatore di scene, né tantomeno l’obiettivo di una riproduzione ambientale. A conferma di ciò troviamo anche l’interessante nota sull’illuminazione che non è utilizzata, appunto, per simulare un ambiente bensì per dare significanza e “illuminare” il senso più profondo dei vari momenti. C’è una valenza chiaramente simbolica e si percepisce già un’attenzione per la sua funzione grammaticale e sintattica all’interno del linguaggio teatrale.
Il rapporto con la musica viene presentato come determinante ai fini della performance attoriale. A differenza della solita funzione riservata alla musica nel recital, che è quella di accompagnare, ovvero di offrire un semplice tappeto sonoro subordinato alla voce e introducendo magari una coloritura atmosferica che predisponga l’ascoltatore al clima emotivo del brano, qui si presenta, invece, come “un personalissimo dialogo, parallelo al verso”. Benché non sia precisato, c’è spazio sicuramente per l’improvvisazione, ma al di là di ciò, quel che conta è l’inter-play che si instaura tra i due artisti, l’amalgama di cui è impastata la massa sonora, la compattezza di un fenomeno estetico percepito come unitario e singolare. Lenti utilizza un pianoforte elaborato, disponendo così di una gamma timbrica ampia e variegata; questo consente alla voce di variare agevolmente su un ventaglio aperto di registri e colori. E così come per la voce, anche alla base della musica c’è il ritmo, non a caso uno dei due cronisti sottolinea la “strumentazione ritmica” di Lenti (può darsi che avesse anche altri strumenti-oggetti a disposizione, ma di certo il pianoforte fu esplorato nelle sua potenzialità ritmiche, ancor prima che melodiche); e il ritmo è dettato dai versi majakovskijani. A nostro avviso risiede qui l’origine poetica tanto dei testi, quanto della loro interpretazione teatrale: nel cuore pulsante dei versi. Bisogna però precisare che la tessitura strumentale non è imitazione del ritmo testuale, ma si muove su un binario parallelo ad esso e, quindi, è in un rapporto di parallelismo con la voce. Non ne percorre la stessa rotaia ma si trova sulla stessa coppia di binari e insieme procedono verso una direzione comune, come un monologo a due voci.
Le espressioni che incontriamo nei due articoli, a proposito della performatività attoriale di Bene, sono: “genialità estroversa”, “personale e un po’ allucinata interpretazione”, “consueto estro di istrione (absit injuria verbis) malato di teatro”. Come sempre e soprattutto in questi primi anni di attività, gli spettatori restano colpiti da una particolare esuberanza, animalesca, allucinata e malata per il teatro. E occorre aggiungere anche il tono personale dell’interpretazione, che nei Majakovskij si eleva all’ennesima potenza, permettendo un’identificazione pressoché assoluta con la figura del poeta russo. L’inquietudine, l’insofferenza della mediocrità, la proiezione verso il futuro, l’eccezionalità di un individuo immerso nell’indifferenza della storia e della borghesia, sono temi che abbracciano in un’unica stretta tanto Majakovskij quanto Carmelo Bene. Ma su tutti questi aspetti torneremo più avanti, nell’ambito di una visione complessiva; per ora vogliamo solo sottolineare che lo spettacolo incanta ancor prima di illuminare (ovvero di far capire, di spiegare); e vogliamo anche notare che si percepisce un metodo di lavoro totalizzante, che non esclude ma, anzi, si prende cura di ogni singolo aspetto della messinscena, inverando poi tutte le componenti nell’unicità dell’evento teatrale Bene ha già intrapreso il suo percorso di uomo-teatro che studia il linguaggio teatrale, analizzandolo nelle sue singole parti e riproponendolo nella sua interezza.